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tic tac. tic tac - apiras@hdemia.it

Tic. Tac. Tic. Tac. Il ticchettio dell’orologio risuonava come un eco, basso e profondo nella stanza completamente avvolta dal buio. Il rumore lineare della rotellina che di colpo scendeva sulla pietrina dell’accendino, fu seguito da una debole fiammella che per un istante gli illuminò il viso. Il primo tiro fu intenso, spasmodico. La mistura di hashish e tabacco, scese lentamente, pervadendo in modo gentile i suoi polmoni. Cercando a tastoni sul comodino, trovò e spinse il tasto play del suo lettore mp3. La musica sparata nelle cuffie, era la stessa da oramai quindici anni.
“Pelle è la tua proprio quella che mi manca, in certi momenti e in questo, momento è la tua pelle ciò che sento, nuotando nell'aria”…
Un altro anno. Un altro anno senza di lei.
Fu proprio questo il primo pensiero che attraversò la testa di Marco, il giorno del suo trentaduesimo compleanno.
Non gli era mai piaciuto fumare al buio. Tranne che nelle occasioni speciali. Non che ne avesse paura, assolutamente, anzi. Il buio era qualcosa di intimo, di troppo intimo. Qualcosa che avvolgeva i suoi pensieri più profondi, portandoli alla dimensione del sogno, dove tutto è possibile. Già, un po’
come nuotare nell’aria. Un piccolo mondo, un caldo riparo, dove tutto sembra fottuttissamente reale. Per l’appunto, sembra. No. Fumare al buio non gli era mai piaciuto. Ma quella era la loro occasione speciale.
“Odori dell'amore nella mente dolente, tremante, ardente, il cuore domanda cos'è che manca perché si sente male, molto male, amando, amando amandoti ancora.”…
Come ogni anno a quell’ora, il suo pensiero tornava a quel pomeriggio del 1995. Il ricordo era candido, nitido, come una fotografia digitale, di quelle che non scoloriscono mai.
La sua mente finiva inevitabilmente lì, sempre lì, sul portone di quella chiesa. Fuori la pioggia battente, col suo rumore incessante, e dentro il prete, con la sua faccia grassa, la sua espressione vacua, e la sua voce stridula che riecheggiava lungo le navate piene di gente. Molti, troppi, troppi semplici curiosi.
Come dentro a un film, rivedeva se stesso con le lacrime agli occhi sotto i Ryban scuri. I suoi occhi rossi, gonfi di dolore e il cuore colmo di rabbia, che fissavano quella bara, la sua bara. Troppo grande per un corpo così minuto e fragile, troppo solida per un anima così delicata. Già, perché il cancro non risparmia nessuno neanche una ragazzina di diciasette anni, con ancora troppi sogni che rimarranno chiusi in un cassetto, e troppi pochi giorni a questo mondo per morire. Il cancro, che parola strana. Non era mai riuscito a capacitarsene.
Il portone della chiesa. E tutte quelle voci, troppe voci…”era così giovane, poverina”!
Vecchie bacucche, bigotte dentro ai loro abiti neri, consunti e consumati da troppe chiacchiere. Che di lei non conoscevano nulla, neanche il nome. Figurarsi, il profumo della sua pelle, il suo sorriso, e il neo sul seno sinistro, bianco e tenero. E quella fossetta infantile che le si arricciava in viso nel momento dell’estremo piacere.
Marco fece un altro tiro, mentre la voce di Cristiano Godano continuava a fluire dalle sue orecchie al suo cervello.
“Nel letto aspetto ogni giorno un pezzo di te, un grammo di gioia del tuo sorriso e non mi basta nuotare nell'aria per immaginarti: se tu sapessi che pena”.
Già il suo sorriso. Marco capì al primo sguardo che l’amava, di quell’amore puro che provi solo quando hai 17 anni, vivi nel buco del culo del mondo, e lavori in fabbrica, perché in fondo in fondo studiare non ti è mai piaciuto. E poi tuo nonno lavorava in fabbrica, tuo padre lavorava in fabbrica, e così da generazioni. Produrre elettricità , che scinderà bauxite, che produrrà alluminio!
Lavorare, produrre e crepare! Perché in fabbrica si crepa, e di cancro si muore. Già quella fabbrica che li aveva appena dato un lavoro, si era portata via la cosa più preziosa che avesse avuto sino a quel momento.
Intanto l'aria intorno è più nebbia che altro, l'aria è più nebbia che altro.
Le corse all’ospedale, la chemioterapia, che ti finisce di ammazzare a rate, veleno a piccole dosi che divora il tuo corpo, e spegne a morsi l’anima.
La benedizione di quell’inutile involucro di legno, che racchiude un inutile involucro di carne.
Non li era rimasto niente, assolutamente niente. E presto la sua immagine, che ora era chiara e forte, sarebbe sbiadita, la sua voce, i suoi occhi, si sarebbero trasformati, annebbiati dal ricordo.
“Perché cazzo non ti prendi il diploma? Ti manca solo un anno”.
“Cosa minchia ci vai a fare a Milano? E’ inutile scappare, lasciarsi dietro i problemi, è solo un altro modo di evitare la realtà. Che prima o poi tanto ti presenterà il conto comunque”. “Io non ho nessuna intenzione di aspettarti”! Non era una tipa che cazzeggiava Anna. Sapeva arrivare dritto al sodo. Sapeva come colpirti, e quando colpiva, se voleva sapeva farti male.
“Dai passami quella canna, ma che bastardo che sei”!
“Ti ricorderai di me”?
“E' certo un brivido averti qui con me, in volo libero sugli anni andati ormai
e non è facile dovresti credermi, sentirti qui con me perché tu non ci sei”…
Le immagini si susseguivano liberamente a raffica nel buio della stanza, davanti agli occhi di Marco.
Sollevò un poco la tapparella. La luce fredda dei lampioni di Milano rischiarò leggermente la camera!
mi piacerebbe sai sentirti piangere, anche una lacrima per pochi attimi
Il suo viso leggermente in penombra, non riusciva più a nascondere quella sottile ruga fredda ed umida che gli si era formata sul volto. Goccia dopo goccia la pioggia iniziò a battere sui vetri mentre Marco spegneva con calma, ciò che era rimasto della sua canna, e dei suoi ricordi.


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