_

no more - fmarcucci@hdemia.it

Quando avevo cinque anni mi sono ucciso. È stata la mia fortuna, morire. Voi non lo sapete, voi non lo potete sapere, ma da morti è tutta un'altra vita. E forse ve lo dovrei spiegare, dovrei farvi capire cosa vuol dire ammazzarsi. E cosa succede, dopo. Dovrei dirvi di non disperarvi, quando qualcuno a voi caro decide di arrestare il sistema e salutare tutto e tutti senza arrivederci. Dovrei dirvelo perché non è come pensate. Forse sì, forse dovrei proprio dirvelo. Ma, scusatemi, essere morti ha i suoi vantaggi, e uno di questi è non dover dare spiegazioni.E quindi oggi compio ventiquattro anni, i miei si sono ripresi dallo shock di diciannove anni fa e ho pure un fratellino più piccolo, anche se non mi ha mai conosciuto.
Mia sorella più grande ormai vive da sola, l'altro giorno ha telefonato a casa, ha risposto mia madre e poco dopo erano urla di gioia e pianti di commozione: ha detto che si sposa, e, sinceramente, era pure ora.
Lei, mia sorella Laura, non era stata un granché contenta quando ero nato io, ecco, diciamo che l'aveva presa un po' a male. Succede quando non sei più la novità, quando tutte le attenzioni non sono più per te e i regali li devi dividere con un'altra persona, che per te risulta un estraneo. Chi è? Che vuole? Ma perché, io non gli bastavo? Penso siano state queste le domande che Laura si è posta, e per le quali non deve aver trovato delle valide risposte. Non sempre, ma a volte, in questi casi si cade in una sorta di autismo. Laura ci era caduta, e con lei tutti noi.
I miei cinque anni di vita non sono stati tanto felici, dopo è andata meglio.
Ma voi, voi siete fermi all'idea della morte, come posso io raccontarvi della mia vita, se voi mi credete morto? Voi credete al paradiso, all'inferno, voi sperate nel purgatorio. Voi non avete fede, pensate non ci sia nulla. Voi non vi ponete il problema. Voi non sapete. Non sapete perché non avete avuto il coraggio di provare. Io diciannove anni fa ero piccolo, e sicuramente a cinque anni non si hanno concetti assoluti tali da ragionarci sopra, non ho deciso di ammazzarmi, l'ho fatto. L'ho fatto e basta. E ho continuato a crescere. Succede così. Semplicemente, succede così. Accade questo, se sei tu a decidere di chiudere il gioco. Vivi. Vivi finché saresti morto. Perché, lo sapete, lo sapete, no, miscredenti di ogni razza e fede, che tutto è scritto e che la data in cui la nera signora vi verrà a cercare è segnata già dal giorno in cui quella fottuta cicogna vi ha posato sotto una stupida foglia di un cavolo di merda? Lo sapete? Lo sapete, no? È così se non decidete di rimescolare le carte, di buttarvi fuori dal gioco e di vedervi il resto della partita da spettatori. No more responsibilities, no more stress. No more money, no more problem. È così, e per me è stato così.
Ho visto i miei piangere, mia sorella guarire, mio fratello nascere. Ho visto la normalità che si riaccasava tra quelle quattro mura che la mia nascita e la mia morte avevano sconvolto. Ho visto i miei farsi forza, li ho visti crescere.
Sapete, morire da piccoli è ben diverso che farsi fuori da grandi. Non hai avuto il tempo di fare troppi casini, non hai il problema di sapere chi si è realmente rattristato per la tua morte e chi non ha versato una lacrima, ma accennato un sorriso. Non sei costretto a vedere tua moglie conoscere nuovi uomini, e casomai sposarli. Non hai il dispiacere di vedere i tuoi figli sbagliare, senza poter far nulla per aiutarli, per correggerli.
Che pacchia quando muori da piccolo, tutti ti piangono e tutti si chiedono quale futuro glorioso avresti avuto.
Sì, se l'avessi deciso sarebbe stata proprio una bella scelta. E anche se la curiosità che mi ha portato ad affacciarmi da quel balcone, sempre di più fino a dove sono ora, non è certo stato un razionale processo di scelta e decisione, beh, vi dirò, sono contento comunque così.
Cos'avrei dovuto fare? Crescere? E poi stressarmi e invecchiare? No, no grazie, me lo sono risparmiato. Non è vita, direte voi. Ma perché, la vostra lo è? Ma per piacere. È tutto un cazzeggio dietro al materialismo. E io al mio materialismo ci ho rinunciato. Sono qui, che volteggio come un pensiero, senza pesi volo come volano le vostre idee e i vostri desideri. Ma io sono, esisto: sono un pensiero che pensa. Cogito ergo sum, no? Che bisogno avrei del corpo? Per interagire con voi? No, grazie, scusatemi ma non me ne frega un granché.
E pensare che questo mio stato, che permettetemi ma io chiamo privilegio, è dato solo a noi, noi che abbiamo deciso, più o meno razionalmente, di farci fuori. Sì, perché, è proprio il caso di dire, ironia della sorte vuole che chi viene ammazzato invece abbia finito, finito sul serio, finito per davvero mi verrebbe da dire. Quelli in questo limbo non ci passano, vanno direttamente al next level. Di cui, scusate, ma anch'io so ben poco, se non che prima o poi spetta pure a me, e che potrebbe succedermi da un momento all'altro, come a voi del resto. Anche se per me sarà più improvviso. Va bene, vi spiego: se non è che a voi vi capiti di morire nel sonno, di essere pugnalati alle spalle o di morire per qualsiasi cosa che definirei fulminante, avete quel momento breve e interminabile in cui vi rendete conto che siete prossimi al game over, in cui si dice si rivedano tutte le istantanee del proprio vissuto. Ecco, quel momento io non ce l'avrò, quello come anche la visione di un camion che mi viene addosso, o la sofferenza agonizzante di una malattia o il precipitare con un aereo o tutti quei motivi che vengono iscritti nel contenitore destino e che, in un modo o in un altro, ti portano a diventare un ricordo di chi ancora vive.
Io semplicemente morirò un'altra volta, questa volta non per mia scelta: mi staccheranno la corrente e questo stato onirico diventerà qualcos'altro che non so. Che non so. E per la quale forse ho paura. Ma le regole sono queste per morire, per morire sul serio. Puoi fregare il destino, sì, ma non per sempre e prima o poi viene comunque a prenderti. La data che era scritta per me, se non avessi fatto quel benedetto volo di 5 piani, è ancora là che mi aspetta. E io non posso fare altro che aspettare lei.
Morto per infarto mentre mi licenziavano, o in un incidente mentre tornavo a casa da mia moglie, o accoltellato in un vicolo, preso a calci mentre ripari la faccia accasciato a terra tra piscio e vomito. Morto, in qualsiasi modo sarebbe successo, sono in attesa di quel giorno. Potrebbe accadermi ora, o domani o tra anni, non lo so ma, del resto, anche questo poco cambia da voi, no? Cosa siete, pure voi, se non in attesa della morte? Siete come me, morti viventi. Ma in più vi affannate pure a cercare di arrivare ricchi e soddisfatti al giorno in cui vi renderete conto del vostro no-sense esistenziale. Io, in questi miei diciannove anni nel limbo dei suicidati, ho viaggiato per il mondo, ho desiderato di andare in un posto e ci sono stato, ho vissuto con chi ho voluto, ho ascoltato musica di ogni tipo e genere, ho visto le opere più magnifiche che l'uomo abbia creato, ho vissuto mille emozioni attraverso le vite di milioni di persone. E ho sostenuto i miei cari con il pensiero, pur sapendo bene che loro non mi sentivano. E li ho conosciuti, più di quanto loro conoscano se stessi, e sicuramente più di quanto loro abbiano conosciuto me. E li ho amati, e li amo. Anche se mi hanno scordato.


.

tic tac. tic tac - apiras@hdemia.it

Tic. Tac. Tic. Tac. Il ticchettio dell’orologio risuonava come un eco, basso e profondo nella stanza completamente avvolta dal buio. Il rumore lineare della rotellina che di colpo scendeva sulla pietrina dell’accendino, fu seguito da una debole fiammella che per un istante gli illuminò il viso. Il primo tiro fu intenso, spasmodico. La mistura di hashish e tabacco, scese lentamente, pervadendo in modo gentile i suoi polmoni. Cercando a tastoni sul comodino, trovò e spinse il tasto play del suo lettore mp3. La musica sparata nelle cuffie, era la stessa da oramai quindici anni.
“Pelle è la tua proprio quella che mi manca, in certi momenti e in questo, momento è la tua pelle ciò che sento, nuotando nell'aria”…
Un altro anno. Un altro anno senza di lei.
Fu proprio questo il primo pensiero che attraversò la testa di Marco, il giorno del suo trentaduesimo compleanno.
Non gli era mai piaciuto fumare al buio. Tranne che nelle occasioni speciali. Non che ne avesse paura, assolutamente, anzi. Il buio era qualcosa di intimo, di troppo intimo. Qualcosa che avvolgeva i suoi pensieri più profondi, portandoli alla dimensione del sogno, dove tutto è possibile. Già, un po’
come nuotare nell’aria. Un piccolo mondo, un caldo riparo, dove tutto sembra fottuttissamente reale. Per l’appunto, sembra. No. Fumare al buio non gli era mai piaciuto. Ma quella era la loro occasione speciale.
“Odori dell'amore nella mente dolente, tremante, ardente, il cuore domanda cos'è che manca perché si sente male, molto male, amando, amando amandoti ancora.”…
Come ogni anno a quell’ora, il suo pensiero tornava a quel pomeriggio del 1995. Il ricordo era candido, nitido, come una fotografia digitale, di quelle che non scoloriscono mai.
La sua mente finiva inevitabilmente lì, sempre lì, sul portone di quella chiesa. Fuori la pioggia battente, col suo rumore incessante, e dentro il prete, con la sua faccia grassa, la sua espressione vacua, e la sua voce stridula che riecheggiava lungo le navate piene di gente. Molti, troppi, troppi semplici curiosi.
Come dentro a un film, rivedeva se stesso con le lacrime agli occhi sotto i Ryban scuri. I suoi occhi rossi, gonfi di dolore e il cuore colmo di rabbia, che fissavano quella bara, la sua bara. Troppo grande per un corpo così minuto e fragile, troppo solida per un anima così delicata. Già, perché il cancro non risparmia nessuno neanche una ragazzina di diciasette anni, con ancora troppi sogni che rimarranno chiusi in un cassetto, e troppi pochi giorni a questo mondo per morire. Il cancro, che parola strana. Non era mai riuscito a capacitarsene.
Il portone della chiesa. E tutte quelle voci, troppe voci…”era così giovane, poverina”!
Vecchie bacucche, bigotte dentro ai loro abiti neri, consunti e consumati da troppe chiacchiere. Che di lei non conoscevano nulla, neanche il nome. Figurarsi, il profumo della sua pelle, il suo sorriso, e il neo sul seno sinistro, bianco e tenero. E quella fossetta infantile che le si arricciava in viso nel momento dell’estremo piacere.
Marco fece un altro tiro, mentre la voce di Cristiano Godano continuava a fluire dalle sue orecchie al suo cervello.
“Nel letto aspetto ogni giorno un pezzo di te, un grammo di gioia del tuo sorriso e non mi basta nuotare nell'aria per immaginarti: se tu sapessi che pena”.
Già il suo sorriso. Marco capì al primo sguardo che l’amava, di quell’amore puro che provi solo quando hai 17 anni, vivi nel buco del culo del mondo, e lavori in fabbrica, perché in fondo in fondo studiare non ti è mai piaciuto. E poi tuo nonno lavorava in fabbrica, tuo padre lavorava in fabbrica, e così da generazioni. Produrre elettricità , che scinderà bauxite, che produrrà alluminio!
Lavorare, produrre e crepare! Perché in fabbrica si crepa, e di cancro si muore. Già quella fabbrica che li aveva appena dato un lavoro, si era portata via la cosa più preziosa che avesse avuto sino a quel momento.
Intanto l'aria intorno è più nebbia che altro, l'aria è più nebbia che altro.
Le corse all’ospedale, la chemioterapia, che ti finisce di ammazzare a rate, veleno a piccole dosi che divora il tuo corpo, e spegne a morsi l’anima.
La benedizione di quell’inutile involucro di legno, che racchiude un inutile involucro di carne.
Non li era rimasto niente, assolutamente niente. E presto la sua immagine, che ora era chiara e forte, sarebbe sbiadita, la sua voce, i suoi occhi, si sarebbero trasformati, annebbiati dal ricordo.
“Perché cazzo non ti prendi il diploma? Ti manca solo un anno”.
“Cosa minchia ci vai a fare a Milano? E’ inutile scappare, lasciarsi dietro i problemi, è solo un altro modo di evitare la realtà. Che prima o poi tanto ti presenterà il conto comunque”. “Io non ho nessuna intenzione di aspettarti”! Non era una tipa che cazzeggiava Anna. Sapeva arrivare dritto al sodo. Sapeva come colpirti, e quando colpiva, se voleva sapeva farti male.
“Dai passami quella canna, ma che bastardo che sei”!
“Ti ricorderai di me”?
“E' certo un brivido averti qui con me, in volo libero sugli anni andati ormai
e non è facile dovresti credermi, sentirti qui con me perché tu non ci sei”…
Le immagini si susseguivano liberamente a raffica nel buio della stanza, davanti agli occhi di Marco.
Sollevò un poco la tapparella. La luce fredda dei lampioni di Milano rischiarò leggermente la camera!
mi piacerebbe sai sentirti piangere, anche una lacrima per pochi attimi
Il suo viso leggermente in penombra, non riusciva più a nascondere quella sottile ruga fredda ed umida che gli si era formata sul volto. Goccia dopo goccia la pioggia iniziò a battere sui vetri mentre Marco spegneva con calma, ciò che era rimasto della sua canna, e dei suoi ricordi.


.

la crudeltà - mtrebaiocchi@hdemia.it

Ok. Ho preso tutto, e anche se così non fosse non posso più farci nulla. Sono le 7: 44 e devo andare di corsa. Il treno passa alle 7:51. Dal cancello al binario impiego 5 min. Forse meno. Serve comunque un miracolo. E soprattutto che lei non si metta a fare brutti scherzi.
Apro la porta, ma stando molto attento a non far scattare la serratura. Lei potrebbe sentirne il rumore e fregarmi anche stamattina, e stamattina (come ogni mattina in realtà) sarebbe letale.
Sto per richiudere la porta; vorrei tirarmela dietro sullo slancio e far tremare tutti i muri del palazzo per lo schianto. Ma non posso. Devo fare tutto silenziosamente. Sono attentissimo e tesissimo; mi sento come un artificiere che sta per detonare una bomba atomica. Intanto i millisecondi passano, e purtroppo anche i loro bisnonni più lenti, i secondi. Chiusa. Non si è mosso un Hertz. Non può avermi sentito.
L’orologio ancora non segna le 7: 45.
Non corro, fluttuo verso l’ascensore. Tutto sulle punte. A vedermi sono la brutta via di mezzo tra la caricatura di un ladro e quella di un ballerino classico. Efficace però: le onde sonore non accennano ad incresparsi. Sono un bazooka col silenziatore. La maledetta non può sentire l’aria muoversi.
L’ascensore è fermo al piano terra, e per salire al mio ottavo piano ci impiegherà l’eternità di 30 sec. Già calcolato. E per ridiscendere, l’eternità ancora più lunga di 35 sec. Non so perché quella carrucola con gli specchi è più lenta da piena che da vuota. Sarà stata lei, strega, a regolarlo in questo modo. Lei sa, che quando si è dentro quel noioso spazio per metereologi il tempo sembra non passare mai. Invece passa. E come!
7: 45
I led segnano che l’ascensore sta salendo. Primo.
Secondo.
Terzo piano.
Sbrigati cazzo! Vorrei urlarlo, e invece implodo di rabbia e ansia.
“ Buongiorno Sg. Andreoli” rimbomba per tutto il corridoio.
Sono fottuto. È la vecchina dell’interno 8/2. La Sig.ra Malteni. Devo rispondere.
“Buongiorno Sig.ra Malteni”
Lei mi ha sentito sicuramente. A volte penso che le due siano in combutta. Poi ci ripenso. Ricordo che una volta la Sig.ra Malteni mi confessò che la portinaia era antipatica anche a lei. Stronza malefica la definì.
Quinto led acceso. Quinto piano
Sesto.
Dai che forse non ha fatto in tempo. O magari ieri si è rotta un piede e stamattina non ce la fa a muoversi.
Settimo.
Ci siamo.
Dai! Dai! Accenditi ottavo led!
No. Non è possibile. “Bloccato”. È apparsa la scritta dell’inesorabile. Come fa ad essere così? Ha atteso il momento esatto per quella mossa. La peggiore ipotizzabile. Non blocca l‘ascensore quando ci sono dentro; in tal caso non sarei più unico responsabile del mio ritardo. Non dipenderebbe da me.
Lei aspetta che trascorrano 29 sec esatti e poi agisce. Non me lo fa neanche vedere lo shuttle condominiale. Mi lascia l’alternativa delle scale. Otto piani, sette pianerottoli, sedici rampe, per un totale di 240 scalini in un tempo cha va dai 50 sec ai 70 sec. Lei conosce perfettamente queste misure. È informata sui miei orari. Sa benissimo che sono un ritardatario cronico, così come lo sono i treni, per mia fortuna. Ma lei non blocca i treni senz’anima. Lei provoca, umilia, sconfigge sempre e solo me. Ha imparato che andrò sempre di fretta per mettermi a litigare, o troppo con calma per incazzarmi.


.

intervista ad una pornostar - emasetti@hdemia.it

Quella palla di lardo del capo mi aveva appena dato una promozione, dopo ben cinque anni che gli lustravo le scarpe, scrivendo recensioni per cinepanettoni italiani: il periodo più ignorante della mia vita, sembra una cazzata, ma calare la propria intelligenza a tirare fuori qualcosa da dire su sketches iperscadenti è quanto di peggio possa desiderare di fare un giornalista specializzato in cinema. Probabilmente la mia saturazione era talmente evidente che il capo stesso la lesse nei miei occhi, e decise finalmente di dare una svolta alla mia giovane carriera. L’entusiasmo e la soddisfazione per il suo sorprendente annuncio furono immediatamente messi a tacere dal servizio con cui aveva inizio la seconda fase della mia carriera giornalistica: dal giorno successivo, infatti, avrei avuto un mese per rintracciare Olivia Dalla Via e confezionare un reportage sulla sua vita.
Olivia Dalla Via, sì proprio lei, la nuova reginetta del porno all’italiana, quella mantide del sesso dai colori mediterranei e dalle curve di plastica, che il mio coinquilino mi aveva descritto come la più verosimile bambola gonfiabile. Una promozione piuttosto curiosa quindi, dato che il tasso di volgarità non distanziava di molto il cinema natalizio dalla pornografia. Sarebbe stato bello poi inserire questa esperienza nel mio curriculum, per non parlare di come annunciarlo alla mia fidanzata…
Messa a tacere la mia vena polemica, prenotai il volo per Napoli e dopo una decina di telefonate ad amici di amici di amici, sarei forse riuscito a parlare a quattrocchi con la famosa dea del sesso.
Riuscii intanto a mettermi in contatto con l’ufficio stampa della casa di produzione più gettonata dall’industria pornografica italiana, che mi promise un giorno di accoglienza presso gli studi in cui Olivia stava girando attualmente. Mentre ero in volo tentai di immaginarmi quali potevano essere le domande per scoprire i segreti di un’attrice porno. L’infanzia, la scelta, il rapporto con la famiglia, le prospettive per il futuro: in fondo le questioni erano facili da individuare, più critico sarebbe invece stato recuperare terreno di fronte alle sue risposte, soprattutto da parte di uno come me, che di cinema porno ne sapeva molto poco – avevo sempre creduto che fosse meglio fare, piuttosto che limitarsi a vedere.
Giunto a destinazione, fui scortato agli studi da un uomo scorbutico, che non mi rivolse nemmeno uno sguardo, preso com’era da un’accesa discussione al telefonino, che durò per tutto il tempo del viaggio. Gli studi erano fuori città, in una piccola frazione di campagna, e consistevano in due capannoni a prima vista fatiscenti. All’interno invece lo spazio era occupato da quattro set, particolarmente curati: un salotto, un ufficio, una camera da letto e uno spogliatoio. Proprio qui si stava girando un film, lo dedussi dai gemiti che echeggiavano nell’ambiente, intervallati solo dalle urla con cui il regista dirigeva la scena. Mi avvicinai, tenendomi dietro alla schiera di operatori vestiti di nero: eccola, Olivia, impossibile non riconoscerla, in quanto unica donna, in compagnia di tre uomini di mezza età, con pancia da birra e stempiature che si divoravano i capelli ormai bisunti. Un tripudio di viscidume, che avrebbe reso la scena particolarmente drammatica, se non fosse stata ingentilita da lei: non era affatto come me l’ero immaginata, la donna di plastica gonfiata di cuscinetti finti; Olivia era bella. Bellissima. I suoi occhi azzurro cielo splendevano anche da sotto quelle masse di carne odorosa, i capelli lunghi, castani, erano rigogliosi come quelli d’una bambina. E le mani, che furono obbligate a fare cose aberranti, erano delicate e rosee, senza smalti e orpelli. La sensazione che ebbi, mentre la vedevo compiere gesti che non le si addicevano affatto, fu di protezione e affetto, come se quella ragazza fosse totalmente indifesa, e dei pervertiti la stessero violentando. Sentii un brivido schifato corrermi lungo la schiena, ma resistetti fino al termine delle riprese, quando lei finì la sua performance letteralmente sepolta di sperma, immagine che mi fece rivoltare lo stomaco e dovetti trattenere un conato di nausea. Corsi al bagno, per sciacquarmi la faccia e non fare la figura del bigotto fuori luogo: non era di certo la prima volta che vedevo una scena del genere, ma subirla dal vivo faceva un certo effetto, e poi la protagonista era lei…
Quando rientrai in sala mi porsero una sedia, e mi promisero che tra qualche minuto Olivia mi avrebbe raggiunto, per i miei trenta minuti di intervista. Attesi guardandomi attorno, ancora un po’ intontito, preparando carta e penna. Lei arrivò, in tuta da ginnastica, scarpe basse e occhiali da sole: l’unico tocco da diva che si era permessa, pensai, e la distingueva dalla volgarità dell’ambiente. Una stretta di mano e via, partii con le domande, cercando di essere meno sfrontato possibile, quasi non volessi scalfire la sua privacy, a differenza di tutte le altre volte in cui avevo conversato con divi stronzi. Lei sorrideva, e rispondeva come se essere intervistata fosse parte integrante del suo lavoro da pornostar. Fu certamente la prima a rispondere cortesemente ai miei quesiti.
“Olivia, la prima domanda che vorrei porti è sicuramente scontata, ma indispensabile per il servizio: come sei arrivata a optare per questa strada?” le chiesi, abbozzando un tono professionale.
“Sai, io ero un’adolescente come tutte le altre, dedita allo studio, circondata da amiche con cui confidarmi e una famiglia per bene, che certamente mi avrebbe sostenuto per il resto della mia vita” rispose senza perdere un accenno di sincero sorriso. “La scelta è arrivata per caso, come penso accada per tutte le altre professioni, con la differenza che forse sono tra i pochi che per lavoro fa qualcosa che ama davvero. A chi non piace il sesso d’altronde?”.
La mia agitazione andò placandosi alle sue oneste confidenze, e la sua scioltezza mi aiutava ad accettare che una ragazza così dolce potesse fare quel mestiere.
“Beh invidiabile” ripresi “E pensi di continuare su questa strada per ancora molti anni?”
Scoppiò in una risata di cui era impossibile non innamorarsi: “Rughe permettendo! A parte gli scherzi, non credo potrò farlo per tutta la vita, e poi adoro cambiare rotta, credo renda la vita più interessante. In futuro mi piacerebbe aprire una scuola per bambini meno fortunati, con handicap fisici o senza famiglia”.
Dio, ma quanto era tenera! Se solo quegli sporchi attori di seconda scelta avessero saputo con quale donna si stavano trastullando, avrebbero tutti ritirato gli ormoni, per portarsela all’altare.
Aggiunse dei particolari, che segnai sul mio taccuino senza quasi sentirli, perché assorto nelle mie fantasie da tredicenne infatuato. Non era da me essere così sdolcinato, ma Olivia mi suscitava un senso di protezione che mai avevo provato in precedenza. Giunsi con tristezza all’ultima domanda, mentre già vedevo gli assistenti di scena farle cenno che a breve avrebbero ricominciato a registrare.
“Sei incantevole” non potei trattenermi, “ma dimmi, i tuoi genitori cosa pensano di tutto questo? Non dev’essere facile vedere la propria figlia ventenne approcciarsi a un mondo così ambiguo…”
“Ah, scusa, io ormai lo do per scontato, mi dimentico sempre che in realtà sono stata adottata, quando ancora ero in fasce. In ogni caso è questa la mia vera famiglia, e i miei genitori hanno accettato questa scelta, certo non senza opporsi inizialmente, ma discutendone con me, e infine rispettando la mia volontà, come sempre hanno fatto”.
Alla sua ultima battuta rimasi scioccato, non tanto per la storia idilliaca che mi stava narrando, quanto perché io stesso avevo vissuto sulla mia pelle l’esperienza dell’adozione.
Ricordo che avevo otto anni, quando mia madre rimase incinta e pochi mesi dopo, nel mezzo della notte, fummo costretti a correre all’ospedale, perché lei stava avendo un parto prematuro. Non ricordo molte immagini di quella notte, è tutto rimasto confuso, ma c’è una scena rimasta impressa nella mia memoria, che mai potrò cancellare: mia madre, ancora devastata dal parto, che teneva tra le braccia un fagotto rosa, e piangeva disperata. Quel fagotto era stupendo, aveva gli occhi di un azzurro sconvolgente, e solo più tardi mi fu spiegato che quello è l’azzurro delle persone che non potranno mai vedere il mondo. Mia madre era talmente depressa che mia sorella non poté nemmeno varcare la soglia della nostra vita, e fu data in adozione prima che potessi conoscerla, ma non prima che potessi innamorarmi di lei.
Sbalzato indietro nei miei pensieri, non feci caso che gli assistenti di scena, irritati, urlavano di sgomberare la zona per riprendere il lavoro. Vidi solo una donna sulla cinquantina avvicinarsi a Olivia, che concedendomi il suo dolcissimo sorriso si alzò in piedi e afferrò il bastone per non vedenti che questa le porgeva, per poi accompagnarla nei camerini.

.

due russi a milano - fmarcucci@hdemia.it

Cucciasky e Vierosky, in vita loro, non avevano mai sofferto il freddo. I russi, difficilmente soffrono il freddo. 
Ma quella era una giornata in cui le temperature non centravano nulla, in cui il gelo al cuore lo senti anche nel deserto. Perchè il sole, in quei giorni, non riscalda. Il sole in quei giorni non basta.
Cucciasky era poco più che un ragazzino in quel periodo, cercava di essere simpatico, di essere disponibile verso i suoi colleghi di lavoro e cercava, sopratutto, di crescere. Vierosky no, lui era diverso, in pochi l'avevano visto sorridere e in molti pensavano che la sua maggiore occupazione fosse pensare più o meno male di tutto e tutti. Nessuno pensava che anche lui volesse crescere. Ma era così. E non era neppure vero che non sorridesse, o che non ridesse o che non apprezzasse certe cose o certe persone. Lo faceva, lo faceva anche lui. Con parsimonia, ma lo faceva.
Ma la diplomazia, quella no che non era un dono dei due russi. E quel giorno nessuno avrebbe sorriso.
Milano può essere una città fredda, una città che ti ruba i colori da dentro, che ti lascia con un palmo di mano rivolto verso il grigio del cielo. I russi a Milano si trovano bene.
Cucciasky e Vierosky erano là già da un paio di domeniche e, probabilmente, avrebbero dovuto passare là, ancora un paio di inverni.
Quella sera avevano voglia di vodka. Era una sera normale per loro, evidentemente, non per il loro barista abituale, quello che stava sotto l'albergo in cui sostavano, con il conto aperto senza soluzione di continuità. Lui, Gianni l'ottimista, il barista abituale, aveva deciso di farsi sparare due piombi in faccia. Uno quasi in mezzo ai due occhi che, peccato che per pochi centimetri, quasi non era al centro alla perfezione. Storie da bar si era detto. Un albanese che aveva lanciato un marocchino addosso ad un rumeno, e due arabi che avevano fatto volare due negroni in testa ad un cinese. Quotidianità globalizzata, integrata, internazionalmente complicata. Pugni e lame e pallottole. Vaganti sì, quello è il problema. E così, Gianni l'ottimista, se n'era andato, imprecando ed incrociando gli occhi: vedendosi arrivare quella pallottola tra le sue due pupille che, peccato che per pochi centimetri, quasi non era al centro alla perfezione. Risultato, conclusione e conseguenza: il bar era chiuso. Per lutto si dice. “Che palle”, ribatté Cucciasky, “bona”, aggiunse Vierosky.
Fortunatamente per loro due il bar dopo non era distante e, solo alla fine della strada, l'insegna luminosa combatteva la sua battaglia contro la nebbia grigia densa e piena di foschia della notte milanese e, come la stella cometa della natività betlemmiana, indicava loro la direzione. Pochi passi e le lettere erano ora chiare: Bar Collo. Quello sì che era il posto giusto per i due russi. Fanculo Gianni, che si riposi pure in pace. Nessuno avrebbe impedito a due russi di bersi la loro amica vodka, bottiglia di, si intende, prima di sdraiarsi fatti e sfatti nel letto ancora disfatto.
Cucciasky entra, Vierosky lo segue: l'odore non è buono, e c'è caldo, troppo. Gli occhiali di Cucciasky si appannano e lui si irrita, Vierosky si disegna una smorfia di disprezzo e disgusto sul viso e si ordina il primo bicchiere, che beve mentre ne chiede altri due. Un altro per lui, e uno per l'amico, collega, compagno. Nel senso comunista del termine. I russi non sono gay, i russi sono uomini. Uomini con il pugno chiuso.
Solo dopo un paio di bicchieri trasparenti i due si guardarono attorno, lasciando finalmente che la loro attenzione distratta si spostasse dal bancone per poter fare una rapida circumnavigazione del locale in cui erano finiti. Perché sì, quello sì che poteva essere un locale in cui si sarebbero potuti ritenere finiti.
Loro, che strani potevano risultare, con i loro cappotti sovietici e i loro colbacchi importanti, imponenti e pelosi e il naso rosso lucido, loro, là, strani non lo erano affatto, così circondati da elementi che sicuramente avevano storie di ordinaria follia alle spalle.
Gli ubriaconi erano i più seri e composti e le puttane le più sobrie e caste. Il cassiere figurava come un frankestein sfigurato, mentre incassava il conto di un povero ciarlatano logorroico che pagava a bronzetti da 1 cent pescati con cura da una grande busta di plastica gialla.
Al bancone un uomo seduto in bilico su uno sgabello, si specchiava nel suo bicchiere lurido e ormai vuoto. E con l'immagine riflessa ci parlava in una lingua che i russi non capivano, e che nessun altro comprendeva. Ad un tavolino vicino alla vetrina sostava una signora anziana, rugosa, bianca pallida, quasi dovesse diventare trasparente, ma pesantemente truccata di colori fluo verdi viola arancioni e blu. Arrotolata e appropinquata nel suo cappotto pelliccia marrone bestia, dalla quale spuntavano solo le mani, smagrite e dalle dita lunghe, che rovistavano in una busta di cartone provata dall'umidità e dall'unto. Nel tavolino dietro di se, più accentrato nella sala, trovava posto un immigrato, arso dal sole di un paese che non era lo stesso di Milano, con le sue orbite scavate, e ancora più scure del resto del viso, e il naso mal disegnato su una bocca smorfiosamente socchiusa e un mento acuminato.
Le luci al neon sfarfallavano ora levigando e ora rinforzando gli spigoli dei visi di quei curiosi abitanti del Bar Collo. Tutti per i fatti loro, presi dal loro respiro e concentrati nella comprensione della loro vita. E lì, al bancone, nell'angolo vicino al bagno, dove il puzzo di piscio sovrastava quello del vomito, che già da tempo aveva lasciato spazio a quello della merda, lì, leggermente storditi, Cucciasky e Vierosky, sorseggiavano la loro tombola di vodka. Gli sguardi freddi come i loro cuori e i corpi curvi sui loro ricordi e sogni natanti nei loro bicchieri.
E potrei dirvi ora che quella sera non era stata una sera come le altre. Potrei dirvi ora che quella è stata la sera che ha cambiato la loro vita. Ma sarebbe una bugia, perché per i russi, questa è normale e regolare quotidianità giornaliera. 
Potrei ora quindi forse narrarvi di loro altre torbide storie di sesso e prostituzione intercontinentale ed interraziale. Di soldi, di mafia, di sangue o passione. Ma no, non vi dirò niente di tutto questo.
Perché lo so cosa volete sentire voi, volete sentire che ho finito. Perché la vostra labile, flebile e volubile spam attention dislessica sta soffrendo, e volete che vi lasci liberi di riniziare a pensare alle vostre vite grigio nebbia, liberi di respirare le vostre polveri sottili, liberi di andare in pace nella vostra quotidiana guerra contro la razionalità. Beh, lo farò. Sì, lo farò, metterò ora la parola fine. Ma voi, voi non dimenticatevi di Cucciasky e Vierosky, perchè loro, loro sono tra di voi.


.

speed kills - sguidicolombi@hdemia.it

L’ultima cosa che ricordo è il silenzio.

ll presentimento è qualcosa che ti entra nella pelle, che si insinua in te cosi discretamente da diventare un abito che non togli più.
Quella mattina, al mio risveglio, il presentimento era il mio compagno di letto, di doccia, di colazione.
Mi ha dato il buongiorno con un sorriso sarcastico e mi ha lanciato la sfida di passare la giornata assieme.
Io l’ho raccolta.
Altro non potevo fare.
Era un venerdì.
Non so perché ma ogni venerdi ha quel colore particolare, quel profumo insolito e fresco di un giorno che sembra uno scivolo.
Uno scivolo che ha come meta due giorni di libertà in cui puoi fare tutto, andare dove vuoi, essere ciò che credi.
Anche se poi sai che difficilmente farai o sarai qualcosa di insolito.
Mi alzai dal letto ed entrai in doccia.
Avrei voluto che i pensieri si fermassero ma c’era una nota stonata in ogni cosa, nel modo in cui l’acqua cadeva sul mio corpo, nelle bolle che il bagnoschiuma faceva sulla spugna.
Note stonate nella musica che era solo nella mia testa, come se le batterie si stessero scaricando.
Mi vestì. Feci un’abbondante colazione in vista della giornata impegnativa che aspettava solo me.
Il latte aveva perso il suo sapore ed i cereali non scrocchiavano più cosi decisi come il giorno prima.
Prima di uscire diedi uno sguardo alla mia casa. In silenzio.
Non so perché lo feci ma sentivo di doverlo fare.
Guardai il primo quadro che avevo dipinto, osservai il mio divano, testimone involontario di sogni e segreti.
Il letto, vertice di triangoli amorosi.
Chiusi la porta alle mie spalle, uno..due..tre giri di chiave, come se nessuno dovesse più rientrare dopo di me.

Pioveva. Cosi tanto che sembrava che la città dovesse allagarsi da un momento all’altro.
Tutte quelle gocce si erano portate via il freddo pungente dell’inverno e dipingevano di nuovi colori i marciapiedi, i tram, le persone stesse.
Dipingevano nuovi inizi, spazzando via la monotonia.
Arrivai al lavoro, dove mi aspettavano nove ore no stop di fatica, di idee, di caffè.
Ma tutto sembrava tranquillo, quieto, cosi calmo da infastidirmi.
Il presentimento si sedette accanto a me davanti al computer, scrisse assieme a me gli headlines per le ultime campagne, prese con me il caffè di metà giornata.

La mole di lavoro del venerdì è sempre piacevole, soprattutto quella del pomeriggio, perché lavorando è come se ti stessi guadagnando quelle 48 ore di libertà a cui pensi dall’inizio della settimana.
Ma quel giorno non aveva eguali, quella leggerezza tanto attesa si stava appesantendo. Senza motivo.
La sera non tardò molto ad arrivare e con essa anche le telefonate degli amici che organizzavano la serata.

Tornai a casa, la stanchezza non mi apparteneva.
Non mangiai, bevvi solo un bicchiere di vino, aspettando il mio passaggio in macchina.
Una festa in una piscina termale.
Quello era il nostro divertimento per quella sera, quella era la mano che staccava la spina dalle nostre menti.
Nuotammo, urlammo e cademmo mentre correvamo accanto alle vasche.
Tutti cosi stupidi da sembrare bambini, ognuno con il proprio compagno di giochi.
Io con lui, solo con lui. Il presentimento.
La notte si era fatta avanti e la nostra ultima meta doveva essere casa.
Sulla strada del ritorno i nostri occhi erano ancora affamati di adrenalina, di brivido.
Tutti insieme in macchina: io seduta dietro assieme ad Andrea e Marco che ridevano senza sosta; davanti Daniele, alla guida, alla ricerca di un modo per sfogare la sua pazzia, al suo fianco Lucia che gli dava corda.
Ma in realtà eravamo sei.
Daniele senza dirci nulla decise di passare con il rosso ad un semaforo solitamente trafficassimo.
Accelerò poco prima dell’incrocio, 90..100..110..km/h.
Trattenemmo il respiro e liberammo il silenzio, tutti, nello stesso momento.
Pochi metri che sembrarono kilometri, inebrianti kilometri.
E poi cinque urla, liberatorie, pazze, incoscienti.
Avevamo sfidato la sorte e lei aveva raccolto la sfida, mentre noi credevamo avesse battuto in ritirata.

Dieci interminabili minuti dopo un tir ci travolse.
Da lì iniziai a vedere e sentire a rallenty.

Marco e Andrea, nell’urto mi vennero addosso, scontrandosi l’uno con l’altro.
Io spaccai il finestrino con la testa.
Daniele e Lucia balzarono fuori dalla macchina attraverso il parabrezza che frantumarono con il peso e la potenza dei loro corpi.
L’auto fece un paio di giri su se stessa, fermandosi poi grazie all’impatto con il guardrail.
Vidi i volti dei miei amici contorcersi dal terrore, vidi i loro corpi frantumarsi come friabili biscotti stretti in una mano.
Vidi la mia e la loro paura fondersi insieme in un composto sconvolgente.
Il tir andò a sbattere contro un palo della luce.
Non vidi più nessuno uscire da lì.

La morte era lì, davanti al ricordo del nostro respiro.
Lì, su chi era riverso a terra, morto a qualche metro di distanza da me.
Le guance appoggiate al cuscino d’asfalto.
La morte era nei corpi accartocciati dentro l’auto. Ossa e crani frantumati. Sbriciolati.

Io, metà del mio corpo fuori dal finestrino e l’altra metà dentro la macchina. L’osso del collo spezzato.
Io assieme al mio fedele e instancabile compagno della giornata.
Lui, che fin dall’inizio mi aveva sussurrato la fine.

L’ultima cosa che ricordo è il silenzio.


.

grigio - spovolo@hdemia.it

And I’m feeling good..
Le trombe della canzone di Bublè che coprono i suoni piatti e monotoni della metro mi avvolgono in una coperta brillante, lasciando tutti gli altri fuori
Ancora un minuto a sta cazzo di metro, constato tra me e me mentre mi dondolo con falsa ansia sulle punte dei piedi. Falsa, perchè tanto ho solo “la tigre” che mi aspetta a casa.
A quest’ora tutti tornano a casa, standosene su questo marciapiede come manichini, tutti fermi a guardare i binari.
“scusi, è da questa la stazione centrale, vero?”
Una mocciosa mi urla d’un tratto nelle orecchie, mischiando le c e le s nella gomma da masticare e strappandomi un brivido sulla nuca.
Rispondo con tono sufficientemente secco da farle perfere la voglia di altre informazioni. Ma invece di lasciarmi stare si sistema incredibilmente, sfacciatamente davanti a me, proprio sulla linea gialla fregandosene di tutti i miei sforzi per rimanere in prima fila.
Il suo odore da candito sintetico mi aggancia le narici, stringendomi alla bocca dello stomaco.
Quanto avrà? 15 anni? se la mia Giulia diventa così giuro che...
Intanto l’aria calda della metro, carica di polvere e fumi di motore, le passa tra i capelli biondicci e si confonde, si mischia a quell’intruglio dolciastro.
Ma questo, questo mix mi piace.
Mi piace mi piace mi piace... e mi avvicino di più ai suoi capelli, che ora si alzano nel vento, e sollevo la mano mentre la luce dei fari compare, e la appoggio sulla sua spalla, lì, poco sotto il mio naso.
Gli altri penseranno che sono un amico, che voglio tirarla indietro, in salvo, e invece no.
Con un rimescolìo dello stomaco appoggio l’altra mano appena sotto la sua scapola, sulla schiena magra... e spingo.
Dura tutto un istante, lei che volteggia in avanti come una bambola, i capelli come meusa inghiottiti dal votice delle urla, e il mio basso ventre che formicola trionfante.
Qualcosa mi dice di trattenerla, che sono ancora in tempo, ma non lo faccio.
E mi piace.
Volteggia oltre il bordo agitano le mani, poi scompare inghiottita dal treno, mentre attorno il caos.
Il vagone si ferma, troppo tardi su quello che rimane, e mentre tutti mi urtano, nelle orecchie Bublè intona l’ultima frase
And I’m feeling... good..


.

erika - gbia@hdemia.it

Mentre stringo fra le mani il martello con cui la colpirò,mi chiedo cosa mi abbia spinto a far entrare nella mia placida esistenza l’altezzosa Erika,nordica bellezza dal carattere difficile. Anche adesso che la fine è vicina mi osserva con disprezzo,sicura che non avrò il coraggio di farlo. Come si sbaglia!Quando gli uomini pazienti e dolci come me finalmente perdono la testa succedono le cose più tremende. Troneggio sulla sua piccola,insignificante massa,e nemmeno un tremito la scuote.
Tutte le persone che l’avevano avuta (la monogamia non è il suo forte) mi avevano avvertito: “E’impossibile, vedrai;ti farà perdere la testa e non verrai a capo di nulla”,ma io ho pensato che risolvere quotidianamente i complicati problemi legali per la multinazionale in cui lavoro avesse plasmato il mio carattere, rendendolo pronto al dialogo e al compromesso. Ma lei neanche parla;resta chiusa nel suo mutismo e ride di ogni mio tentativo di creare una connessione. Lo ammetto,è stato il suo aspetto a farmi perdere ogni prudenza: l’ho fatta entrare nella mia casa compiacendomi della sua bellezza,trattandola come mero oggetto decorativo,come quei maschilisti ai quali mi sono sempre sentito superiore,e lei deve averlo capito. All’inizio sembrava docile ed arrendevole,e io l’ho sottovalutata;ho pensato che sarebbe bastato poco per entrare nelle sue grazie e farla mia per tutta la vita. Ma poi ho provato di tutto per farmi perdonare,per farle capire che ero pentito!A nulla sono valse le parole dolci,le carezze e i complimenti:tutti i miei tentativi sono stati un fallimento. Le donne che ho avuto sono sempre rimaste conquistate dalle mie delicatezze ed attenzioni:con lei era tutta fatica sprecata,e la sua volontà di ferro non faceva che accrescere la frustrazione e insieme la mia febbre di conquista. Quante notti trascorse ai suoi piedi,cercando di comprenderne il mistero!E sempre il suo sguardo di ghiaccio,perforante,che mi azzerava il pensiero e la ragione! Perfino al lavoro,non appena si presentava un cavillo più complicato del solito,trasferivo il senso di impotenza su scartoffie e documenti che spesso,e lo ammetto con vergogna,volavano dalla finestra. Come avrei voluto,una volta tornato a casa dopo una dura giornata di lavoro,rilassarmi e distrarmi un po’! Ma c’era sempre Erika col dito puntato che mi accusava di essere un fallito,un uomo inutile incapace di darle la completezza che cercava.
Spero che,una volta fatto ciò che sto per fare,mi daranno le attenuanti per temporanea insanità mentale: chiunque abbia provato la completa frustrazione ed impotenza che provo io da un anno,che ha pianto tutte le lacrime di umiliazione che ho pianto io,mi potrà capire.
Sollevo il martello e lo calo più forte che posso sul piano in legno di pino della cassettiera Erika comprata all’Ikea,che non si è mai incastrato alla struttura sottostante;sfondo i cassetti dalle graziose maniglie che non si sono mai aperti completamente e finisco la maledetta cosa a calci,sentendomi l’uomo più felice e potente della terra. 

.

sostanzialmente - sgiordanelli@hdemia.it

Fu l’ultima cosa che vidi prima di svenire.
E probabilmente l’unica che non dimenticherò.
Le prime persone che vidi una volta riaperti gli occhi avevano il camice bianco e lo stetoscopio al collo, e continuavano a ripetermi di riposare.
Poi ricomparve tutto davanti agli occhi: come un flash, in un lampo ogni cosa riprese forma. L’inizio di un incubo, se solo fosse stato un sogno.
Non lo sentii entrare in casa quel dannato giorno, non notai nulla di diverso dalle altre sere: mia moglie dormiva già da tempo, io stavo finendo di lavorare al computer e a breve l’ avrei raggiunta sotto le coperte. Mi investì alle spalle una grandine di calci e pugni, colpi da ogni parte. Caddi subito dalla sedia. Il sangue colorava il pavimento. Non ebbi la possibilità, la capacità di difendermi, le ossa si rompevano, la sorpresa mi aveva immobilizzato, non capire cosa stava accadendo mi aveva impedito ogni difesa: fu semplice per lui, poco dopo, legarmi – ancora intontito - mani e piedi alla sedia.
Implorai di prendere tutto quello che avesse voluto, che non avrei fatto denuncia, purchè ci lasciasse stare. Supplicai. Piansi, balbettai. E feci il primo errore: dirgli di mia moglie.
-Bravo, amico mio, ora inizia la festa- disse solamente mentre mi tappava la bocca con nastro isolante.
Salì al piano di sopra.
Cercai di liberarmi, di forzare quei nodi con tutte le energie, con tutta la disperazione che avevo. Nulla.
Urla. Mia moglie. Bastardo. Tonfi, rumori sordi: una colluttazione. Dio mio fa che non succeda niente, Dio aiutami- pregavo, il sangue mi andava negli occhi, mi copriva il viso.
Le urla cessarono poco dopo. E scese le scale, lentamente, mia moglie esanime sulle spalle. Mi fissò. Lo fissai. Rabbia, la mia: il suo era solo divertimento.
Scaricò Mara proprio di fronte a me, sul divano, la faccia tumefatta dai pugni; e si incamminò con uguale lentezza verso la cucina.
- Luca, amore mio. C-ch’è successo? Chi è?- mi balbettava, aveva perso due denti, lo zigomo era gonfio. Cercai di parlarle attraverso quel maledetto nastro, non ricordo più quali parole, ma gli occhi non potevano nascondere quello che provavo: paura.
- Avete finito con le chiacchiere o volete qualche minuto, piccioncini miei? Sapete, anch’io avrei qualcosa di importante da dirvi, tutto sommato- si sedette proprio al fianco di Mara, guardandola, volgendo poi lo guardo su di me. Le accarezzò il viso.
-Bastardo lasciami stare, prendi quello che vuoi ma non mi toccare.- si dimenava, cercava di liberarsi. I capelli corvini le coprivano il volto.
-Bene bene, sei una dura eh? Mi piace. Ma se tu pensi che voglia scoparti, ti stai proprio sbagliando mia cara- cercava il mio sguardo, mi provocava. Ero esausto, i nervi stavano crollando, volevo morire, non riuscivo a sostenere i suoi occhi nei miei, il suo ghigno demoniaco.
Si alzò nuovamente, si diresse in cucina, tornandone subito dopo masticando, con un piatto in mano.
Lo appoggiò sulla sedia.
- Luca, hai da dire qualcosa a tua moglie?
Non capii subito. Per fortuna.
Estrasse una lama e tagliò la gola a mia moglie. Di netto.
Il vuoto nello stomaco, l’orrore negli occhi. L’impensabile, una allucinazione negli occhi. Impossibile capire, perché, cosa stava accadendo. Perché a me. Non avevo paura, né rabbia: l’unica cosa che desideravo era morire, subito.
E lui lo capì subito, per questo mise via il coltello; prese il suo piatto e si sedette al mio fianco a godersi la scena.
Stava mangiando, il bastardo stava mangiando mentre mia moglie agonizzava.
Mara cercò di alzare la testa con tutte le sue forze, ma le forze la stavano abbandonando sempre più velocemente, solo i suoi occhi gridavano disperati: perché? Perché io, perché ora?
Durò poco, e si accasciò coprendo il proprio sangue.
-Uccidimi, falla finita- lo desideravo più di ogni altra cosa.
Questo pensavo quando feci il secondo errore. Svenni.
L’ultima cosa che sentii fu il rumore di una forchetta. 

.

metafisica crudeltà - emasetti@hdemia.it

L’interrogatorio non fu un’esplosione di violenza come avevo temuto, l’indagato non esitò minimamente a raccontarci nei dettagli le sue efferatezze, senza perdere per un secondo quel sorriso beffardo, che resterà inciso nella mia memoria per ancora molto tempo.
“Sono rinato!” dichiarò, prima ancora che gli ponessi la prima domanda,
“Erano anni che non mi sentivo così soddisfatto, dovrei ringraziare quella ragazza per avermi finalmente mostrato la via della felicità. Ma che peccato, non so se potrà più sentire le mie parole, magari nella prossima vita” ridacchiò come una iena, un sorriso che insieme ci fece rabbrividire e suscitò istinti vendicativi che dovemmo celare per il resto dell’interrogatorio.
“Ci racconti allora cosa ha fatto alla vittima per essere così felice, come è arrivato a ridurla nello stato disumano in cui è stata ritrovata?” gli chiesi.
“Uno stato di sublime scultura, vorrà dire. Provo pena per voi, che ancora non riuscite a vedere la bellezza di un corpo ridotto all’essere, privato di quegli inutili orpelli che fanno di un uomo un uomo e di una donna una donna. Ma io ho superato il ponte, ho capito che tutta la sofferenza che vedete nella storia, le lotte per il potere, gli antagonismi tra uomo e donna, e vostro padre che vi punisce perché siete tornati a casa troppo tardi, questo supplizio, questo destino è reversibile. Non dovranno più esserci differenze tra maschio e femmina, e io l’ho compreso, come i grandi filosofi, con l’unica differenza che loro erano dei vili, non avevano il coraggio di fare ciò che ho fatto io: passare dalla potenza all’atto.”
“Beh esiste la chirurgia estetica oggi per questo” lo interruppi,
“fare di sé l’essere supremo, l’idea di uomo, non è una scelta che le persone possono fare autonomamente, rivolgendosi ad un mero sarto assetato di denaro. La Creatura nasconde sempre un Creatore, che per definizione agisce per sua intenzione, la cui volontà è la stessa Creatura. Occorre l’istinto, il piacere di forgiare, e inevitabilmente occorre il dolore. Non c’è nascita senza trauma. Ecco perché ho dovuto scolpire così il corpo che avete trovato. I miei sono strumenti sacri, solo con essi avrei potuto livellare le sue oscene curve femminili, ripulirla dalla sporcizia che si annidava tra le sue cosce. Ed è necessario un mago del coltello, che conosca la forma in sé cui ispirarsi, che riesca a fondersi con la propria Creatura nell’esecuzione artistica. Io ho goduto con lei, mentre la liberavo dalle labbra e dal clitoride; ho succhiato il suo latte mentre appiattivo i suoi seni facendoli schizzare fuori dai capezzoli; le ho visto l’anima attraverso gli occhi sbarrati dalla paura. E poi era lì, davanti a me, l’uomo in sé.”
Non riuscii a trattenermi: “Ormai morto! Come può dirsi uomo un corpo senza vita?”
“Immaginavo me l’avrebbe chiesto. Voi, piccola gente, siete ancora incastrati nel tempo, non riuscite a vedere che la forma perfetta non ha tempo, è eterna: quella ragazza dovrebbe ringraziarmi, per averle donato l’eternità dell’essere.”

.

il piacere - mtrebaiocchi@hdemia.it

Eccomi in casa. Richiudo la porta con un colpo d’anca.
La luce dei lampioni di strada entra lenta nel soggiorno. È fioca. Sufficiente. Calda. Perfetta. E poi, sinceramente, l’interruttore è troppo lontano.
Ogni parte del mio corpo è guidata da una stella polare che porta diritta verso il divano.
In uno stato psicofisico che è tra l’incoscienza, l’attesa e il sogno ad occhi aperti mi dirigo verso quella verità in finta pelle. Pochi passi.
Scrollando le spalle mi tolgo il cappotto e lo lancio.
Lascio cedere le gambe…e giù. Non so se sono io a dover ringraziare il mio culo per il magnifico atterraggio, o se in realtà è lui a godersi di più quel momento.
Rilasso le spalle e il collo. Lascio cadere le testa indietro, piano piano, fino a che gli occhi, sbarrati come in orgasmo, non inquadrano il nulla bianco del soffitto.
Allungo le gambe sopra il tavolino davanti a me. Sono in armonia con i mobili. Mi muovo automaticamente, trovando tutto al suo posto senza guardare.
Con la punta della scarpa destra faccio leva sul tallone sinistro. Prima scarpa via.
Ora con il piede scarcerato tolgo l’altra. Via.
Le dita si tendono e si allargano che sembrano non volere vivere un secondo in più una accanto all’altra.
Distendo le gambe e contraggo i muscoli. Una sensazione simile al dolore mi attraversa i muscoli del viso. Rilascio. Ora non mi alzo più per nulla al mondo!
Allungo la mano sinistra verso il cappotto sul versante opposto del divano. Frugo dentro la tasca. Trovati al primo tentativo. Sigarette e accendino. Scuoto il pacchetto e vengono giù un paio di bionde. Ne porto una alla bocca. Le labbra si schiudono e ospitano il migliore dei succedanei mammari che l’uomo abbia mai inventato.
Manca solo un’altra bionda alla mia felicità.
Il braccio destro è andato già a scovarla nel suo fresco rifugio.
Minifrigo al lato del divano. Sono un genio!
Apro. Ne afferro una per il collo. Ghiacciata.
Colpo secco, millimetrico sulla maniglia-apribottiglie. Stappata.
Solo, in compagnia di due bionde
In una luce che assomiglia tanto al buio
Stanco, che più rilassato non potrei essere.
Una sigaretta appena accesa e una birra tutta da bere.

.

15 parole - fmarcucci@hdemia.it

“Ma cosa credi? Pensi davvero che basti scrivere tre pagine cagate per fare un libro?”.

“No, certo che no”, dissi io, “ma..” “Ma che cosa? Ma - che - cosa?”, mi ribatté lui subito, scandendomi le parole come fossi un deficiente, un minorato. E io immobile, sudato, pallido, seduto in quella sedia, ma a terra, completamente a terra. Atterrito. Che sarebbe stato un sogno se tutto quello in realtà fosse stato solo un incubo. E lui, dall'altra parte della sua ricca scrivania, continuava a leggersi quel mio prezioso manoscritto. Se lo rigirava stufato tra le mani, quel lavoro che era una parte di me, quel lavoro che io ero stato attento che non avesse nemmeno mezza stropicciatura, e che ora dopo il suo trattamento sembrava carta straccia, carta igienica. Usata.

“Guarda”, riprese lui, “secondo me è inutile che insisti, questa cagata che hai scritto fa vomitare, non pensarci, fai altro, fai come tutti i ragazzi della tua età, vai a giocare a pallone, che intanto lo scrittore non lo diventerai mai.”

Erano mesi che aspettavo quel giorno, quell'incontro con lui: uno dei più rinomati esperti e critici di letteratura, grande scopritore di talenti e, per questo, molto influente presso le case editrici, anche tra quelle più grosse. O almeno come pensavo e mi era stato fatto pensare all'epoca: in realtà, un amico di mia madre, la sua fama la quale non andava oltre la mia piccola città. Paese a dire il vero: uno di quei noduli di case insignificanti, grigie cemento, attraversate da un nastro d'asfalto che fa da strada principale, d'entrata, d'uscita e di transito.

Ma io ero ancora un ragazzino di provincia, e quell'amico di mia madre, dichiaratamente dell'altra sponda, mi sapeva tanto di artista: viveva a Milano, viaggiava tra Londra, Parigi e New York, e a me, a me dava quell'impressione, di uno cazzuto insomma. Solo dopo qualche anno scoprii poi che a conti fatti, piuttosto che cazzuto, era un cazzone, che non combinava nulla e che spendeva i soldi di famiglia, e che quella sua cultura, quella sua posizione e quelle sue amicizie, era solo e giusto una questione di culo. Del suo, di culo.

Valle a sapere certe cose, quando sei un ragazzino di provincia.

E quindi quel pomeriggio ero lì, davanti a quella bella scrivania, dopo tanta attesa che lui ripassasse per il paese tra un viaggio e l'altro. Ero lì, davanti a tutta quella sua gaiezza così tanto ben espressa da quel suo bel maglione fucsia, che ora direi, con un occhio più esperto, dovesse proprio essere in pregiato cachemire.

“Anna era la più bella ragazza del mondo” iniziava così il mio racconto, e ancora me lo ricordo letto a voce alta da lui a me, con una voce, una voce che sembrava un sintetizzatore vocale, indeciso se essere maschile o femminile, con gli acuti sballati e i bassi strozzati. E ok, concordo, l'incipit non era un granché, concordo, lo riconosco, lo ammetto, ma ero un ragazzino, ero semplice e genuino, e Anna, quell'Anna a cui m'ispiravo io per l'Anna del racconto era davvero una figa. Una figa figa. Ma proprio figa un sacco: bionda, una ragazza bionda con gli occhi grigi, alta, alta ma non troppo, formosa che sballava, che quando ti parlava ti ipnotizzava e che quando ti camminava davanti ti accaldava. Eh sì, eh sì, quando ci penso penso che quel gran saggio si fosse proprio ispirato a lei, quando aveva formulato quella massima di infinito e reale valore semantico: bionda, beato chi ti sfonda.

Ed era inevitabile del resto che poi io, ragazzino di provincia, avessi proseguito il racconto con varie scene in cui Anna, per motivi non propriamente religiosi, si trovava spesso in ginocchio. Indaffarata e in ginocchio. Senza che stesse lavando i pavimenti, no, quello no. Non quello. Ed era altrettanto inevitabile, data la mia così povera di spunti vita di provincia, e che delle grandi città ne sentivo solo parlare dai telegiornali, tra scioperi, cortei, bombe e stupri, che alla mia Anna non regalai una bella fine: violentata da dei manifestati comunisti, di cui uno aspirante bombarolo, durante una manifestazione a sostegno della classe operaia violentata dai capitalisti. Sì, perché all'epoca, quando scrissi quel racconto, mi era piaciuta l'idea dei lavoratori che subivano le violenze dei capitalisti, e di Anna che le subiva dai comunisti, seppur non avesse nessun senso. Io, ragazzino di provincia, la trovavo una bella trovata. Lui no. Lui non era assolutamente di quell'idea: “ma questo, scusa, che cazzo centra?” mi aveva detto, quel mezzo uomo, per il quale all'epoca portavo tra l'altro un sacco di rispetto, e io lì, a fare spallucce, ad accennare un mezza smorfia con la bocca, sommessa, con un arrugare della fronte, sommesso anche quello e contemporaneo ad un quasi repentino abbassamento della testa, e con essa dello sguardo. E io, io che pensavo di essere stato originale. Sì, insomma, mica l'avevo fatta violentare in un banale vicolo cieco durante una tenebrosa notte cupa, eh! Sì, forse il comunista con il machete, non era sta una gran bella idea, soprattutto considerando che era durante un corteo pacifico e solidale con gli operai, però a me piaceva. L'ho detto. E del resto ero un ragazzino. Un ragazzino di provincia.

Sono passati tanti di quegli anni, ma quell'incontro, quel giorno, me lo ricordo benissimo: i particolari e le emozioni, la gioia del mattino, l'ansia delle settimane precedente e la tristezza della sera. La sua pelata, lucida, lucidata, e quegli occhiali tondi, con la montatura troppo grossa per quel viso magro, lungo, cavallino. Mi ricordo quando me ne andai, quando dopo avermi congedato si accese il proiettore che aveva nel suo studio per vedersi chissà quale film di quale anno del cucco, infastidito dalla perdita di tempo che era stata la mia visita. Mi ricordo la mia angoscia nell'aver fatto fare brutta figura a mia madre. A mia madre. Mi ricordo il ritorno a casa in lacrime, con in mano il mio manoscritto, che lui neanche aveva voluto tenere. Mi ricordo il film di guerra che passava quella sera in tivù. Mi ricordo la notte insonne.

Mi ricordo la delusione del giorno. E mi ricordo la rabbia del giorno dopo.

Sì, ne ero cosciente allora, e ne sono ancora più consapevole adesso, a distanza di tanti anni: lui mi aveva dato quello di cui avevo bisogno, un obiettivo. Io, ragazzino di provincia, che scrivevo per noia, che volevo sentire un semplice parere da un amico di famiglia e che non volevo niente più, ora, ora volevo il successo, la fama: volevo essere riconosciuto da tutti come un grande scrittore.

Revanche, revanche! Quel giorno la mia vita era cambiata.

Quella mia opera prima, che fosse stato per lui, sarebbe stata pure l'ultima, era solo una scintilla: il primo passaggio senza successo di un fiammifero sulla striscia ruvida. Io il fiammifero, lui la striscia ruvida.

Così è. Questa è la mia storia, e questa è la mia dedica. Perché il mio successo è tutto per lui, per te.

Sì, sì, lo dedico a te, che pieno di rabbia, se non sei morto, stai leggendo. Il mio ultimo libro, “Il cappotto bruciato dell'Anaconda”, è tutto per te, perché io, ragazzino di provincia, con riconoscenza, vaffanculo, ce l'ho fatta.

.

tutto su tua madre - sguidicolombi@hdemia.it

Ricordo la prima volta che vidi tua madre.
Era un pomeriggio d’autunno ed io passeggiavo per strada, distratto, quando ad un tratto andai a sbattere contro questa ragazza bionda.
Indossava una strana maglietta con sopra disegnato un anaconda e quel particolare mi incuriosì subito.
La sua borsa cadde a terra, cosi ci chinammo entrambi per raccoglierne il contenuto, fino a quando non mi capitò in mano il DvD del film “La sottile linea rossa”.
Sorrisi.
Io ero un appassionato di film di guerra, li avevo visti quasi tutti ma non avevo mai trovato nessuno con la mia stessa passione.
Ci presentammo e poi cominciammo a chiacchierare.
Ricordo ancora la sua stretta di mano decisa quando mi disse “Io sono Anna, piacere.”
Diventammo subito amici, non so come mai ma mi sembrava di conoscerla da sempre, era familiare.

Ricordo la prima vacanza che abbiamo fatto insieme.
Abbiamo noleggiato una macchina e siamo partiti.
Meta sconosciuta, ci saremmo fermati dove ci andava.
Avevamo tutto quello di cui avevamo bisogno: una tenda, qualche soldo e la sua immancabile macchina fotografica.
Tua madre l’ha sempre portata ovunque, anche a cena nei ristoranti o in metropolitana: le cose e le persone sono diverse attraverso l’obiettivo, più vere, autentiche.
Abbiamo fatto kitesurf, visitato musei, conosciuto persone diverse in ogni luogo; abbiamo fatto il bagno nell’oceano di notte e dormito sotto le stelle.
Una volta tornati a casa dalla vacanza, tua madre prese il suo proiettore ed insieme guardammo le 792 foto che aveva scattato in Spagna.
Fu la serata più lunga della mia vita, ma ora ringrazio per quelle fotografie.

Non le chiesi di sposarmi in ginocchio, non le misi l’anello nella torta con il rischio che si soffocasse e non noleggiai un aereo che portava lo striscione con su scritto “Mi vuoi sposare’?”
Tua madre non è mai stata il tipo di donna che ama queste cose, preferisce di gran lunga la semplicità.
Cosi un giorno mentre lei spingeva il carrello al supermercato ed io m’ibernavo vicino al banco frigo, tua madre si girò e a voce alta e mi disse “E’ inutile che insisti, non ti sposo!”
La fissai, piuttosto sorpreso, cercando di capire cosa mi stesse dicendo, poi, sorridendo le dissi “Sposami ed non insisterò più.”
Cosi, fra gli yoghurt e le zucchine, ci fidanzammo.

Ho saputo del tuo arrivo in modo piuttosto strano.
Tua madre è una persona originale e non avrebbe certo potuto dirmi “Sono incinta” e basta.
Tornai a casa dal lavoro, andai in camera per cambiarmi e sul letto trovai un maglione premaman fucsia con sopra un biglietto su cui aveva scritto “Da oggi diventerò cicciona.”
Ero cosi felice da sembrare ridicolo.
Quando è tornata a casa, abbiamo festeggiato e fantasticato su come sarebbe potuta essere questa piccola persona che stava crescendo dentro di lei.
Ricordo che una volta la sorpresi con un pallone sotto la maglietta; stava provando a vedere come sarebbe stata con il pancione, era cosi buffa..
Rimasi lì in silenzio a guardarla per qualche minuto pensando che madre meravigliosa sarebbe stata.

La cosa più bella di lei è sempre stato il suo sorriso, lo porta sempre con sé.
E’ una delle persone più divertenti che abbia mai conosciuto.
E’ spontanea, fa tutto quello che le passa per la testa, è cosi vera.
Ricordo quando per la festa di Halloween si è travestita da serial killer.
Se ne andava in giro con questo machete e quell’aria minacciosa che la rendeva ancora più ridicola del suo travestimento.
Nessuno capì da cosa fosse vestita tanto che continuavano a chiederle chi volesse sembrare ma lei non ci faceva caso, era contenta cosi, non le importava di quello che pensavano gli altri,
Tua madre è anche questo. Così libera da poter essere spontanea, senza la paura dei giudizi altrui, senza il timore di non essere compresa.
La amo per questo, ai miei occhi è una delle persone più coraggiose che conosca.

Una sera, quando era quasi al termine della gravidanza, mi chiese di uscire per fare una passeggiata.
Ormai i suoi movimenti erano rallentati, le sue caviglie erano ingrossate e la schiena le faceva male.
Ma voleva uscire per fare due passi.
Era una notte cupa, nessuno era in giro a quell’ora, le strade erano deserte ma lei voleva godersi quei momenti.
Diceva che una volta genitori non avremmo più avuto l’occasione di uscire quando ci pareva, senza badare ad orari o ad impegni.
Era convinta che le cose sarebbero drasticamente cambiate e che dovevamo goderci la fine di quella fase della nostra vita.
Faceva caldo, caldissimo, il nastro d’asfalto emanava calore come se ce lo stesse soffiando addosso.
Ci godemmo in silenzio l’afa di quella notte.

Tua madre odia il freddo, lo teme letteralmente.
Avrebbe voluto vivere in un posto in cui fa caldo 365 giorni all’anno; sognava di passare il Natale in pantaloncini e di andare a fare il bagno nell’oceano la mattina prima di andare al lavoro.
Un paio di inverni prima della tua nascita, la temperatura si era abbassata cosi tanto che faceva freddo perfino in casa.
Tua madre si mise addosso due maglioni e il cappotto e decise di accendere il camino, cosi avrebbe potuto leggere un buon libro seduta vicina al fuoco.
Lei è tante cose ma non certo una scout provetta, così, mentre cercava goffamente di accendere il caminetto, il suo cappotto prese fuoco.
Non so come ma non se ne accorse nemmeno.
Tre secondi dopo c’ero io che la innaffiavo d’acqua come fosse una pianta.
Non indossò più quel cappotto bruciato ma lo conservò in ricordo di un pomeriggio alternativo.

Il suo libro preferito è Sulla sponda del fiume Piedra di Paulo Coelho: sembrava scritto per lei.
Parla dell’amore e del fatto che questo sia sempre nuovo e che non si ripeta mai in ogni suo dettaglio.
Dice che ci porta sempre in qualche luogo, non si sa dove ma è importante accettarlo.
Ha sempre creduto che l’amore che provava per questa piccola persona che cresceva dentro di lei fosse qualcosa che non aveva mai provato prima, fosse inaspettato e la stesse conducendo in posti impensabili, facendo di lei una donna che non avrebbe mai pensato di poter diventare.

Da quando ha saputo di aspettare te, tua madre diceva spesso che la cosa peggiore che potesse capitare ad una donna non era essere violentata o picchiata.
La cosa più brutta, secondo lei, era perdere un figlio.
Diceva che, anche se non eri ancora nata, lei era giù tua madre e la sola idea di perderti la faceva impazzire.
E’ strana la vita.

Vorrei poterti regalare tutti i ricordi che ho di lei come se fossi stata tu a viverli.
Vorrei che tu avessi avuto la possibilità di conoscerla.

.

senza titolo - mbetti@hdemia.it

Non so se lasciare casa fosse la scelta giusta, ma il motore del mio Furgoncino Wolkswagen era troppo invitante quel giorno. Bianco. Interni di pelle marrone. Elisabetta, Nicla, Nicola e Maria. Tanta Maria. Troppa Maria. Non avevo un lavoro e non avevo ambizioni, ma gli anni 60 non chiedevano nessuno dei 2. Mi ricordo che era un pomeriggio assolato, il 13 maggio, di quelli con la luce arancione ed i ricordi morbidi. Viaggiavamo sulla E7, in direzione Bologna, e la prima bomba ce l’ accendemmo sulla rampa di ingresso della superstrada. Era buona, aromatica, profumata di libertà. Tutto aveva un gusto diverso con quella luce. Elisabetta e Nicla erano due ragazze romane, conosciute tra una birra e una paglia la sera prima. Avevano un sorriso che le altre non avevano, e Nicla, la mia preferita, sapeva di fiori Zagara e di brioche calde alla mattina. Un piccolo neo, appena al dì sopra delle labbra, si nascondeva ogni volta che cercava di ammiccarmi nel suo modo infantile. Era una bambina. E io non ero diverso da lei anche se credevo di esserlo. Volando sopra quei ponti a cavallo degli appennini sognavo un posto che non avevo, una emancipazione fatta di canne e fiori, come prima di me aveva già fatto mezza america. Ma il solo fatto di essere dentro quel sogno straniero già mi bastava. E poi c’ era lei, e lei spiegava tutto. Nicola stringeva il volante con la destra, mentre con l’ altra, scuotendo i suoi rayban marroni, dava un occhiata distratta allo specchietto. Era felice. Lo sapevo. Felice di quella situazione, di Elisabetta, di me, del furgone. Felice di sé stesso. Le ragazze, fissando fuori dal finestrino, stavano in silenzio contemplando il momento. Per un attimo tutto mi sembrò come sospeso. Poi improvvisamente mi voltai, rompendo quell’ equilibrio. – Ma tu chi sei? Da dove vieni?– Dissi in direzione di Nicla. – Io sono Nicla, Nicla e basta – mi rispose un po’ spiazzata. Il suo sguardo giocò a nascondino. – e…. che fai nella prossima mezz’ ora nicla? – aggiunsi fissandola negli occhi. - Non so…magari mi- Con un rapido movimento balzai dietro, interrompendo i suo discorsi. Elisabetta, sorrise complice, intuendo le mie intenzioni. Cominciai a baciarla, dapprima lentamente ,poi con una voglia che dopo una canna non mi sarei mai sognato di avere. Le mie mani seguivano il disegno del suo corpo senza che lei si opponesse in alcun modo. Nicola accostò nella piazzola più vicina, a 300 metri dall’ uscita di cesena, e passò dietro con noi. Fu veloce, caldo, sudato, condiviso. Come l’ erba migliore. Potevo vedere le goccioline di fatica colare giù dalle palpebre di Nicola mentre elisabetta lo baciava. E Nicla. Nicla non disse una parola, ma non serviva. Mi abbracciava, aggrappandosi con le unghie al mio respiro e alla mia pelle. Il suo odore, risalendo dalle narici, era la miglior droga del mondo. Mi ero già innamorato di lei e del suo neo, anche se lei ancora non lo sapeva. Sui finestrini, umidi del nostro calore, disegnai un fiore per lei. Mi sorrise. Come solo lei sapeva fare. Un ombra nera, battendo ripetutamente sul finestrino, mi risvegliò dal mio locus amoenus. Una luce rossa e blu ad intermittenza illuminavano i nostri corpi nudi. Toc toc. Un altro battito. Voci. Niccolò, senza nemmeno vestirsi, saltò nel sedile davanti. Era la pula. Era la vendetta divina. Erano i guastafeste. Erano 3 i kili di maria nel bagagliaio. Senza pensarci due volte, saltai anch’ io nel sedile del passeggero, mentre il furgoncino, sgommando, guadagnava la superstrada. In pochi secondi fummo oltre i cento orari. Mi voltai cercandola. Nicla, con lo sguardo terrorizzato di una bambina, mi stava guardando. – Stai calma, andrà tutto bene. – dissi con una voce da film a cui non credevo neanche io. Furono i miei occhi a tradirmi. Lei era ancora nuda, bianca, così fragile da farmi tenerezza. Aveva paura. Avrei voluto scendere, piangere, chiedere scusa a tutti, e incamminarmi mano nella mano con lei verso casa. Avrei voluto proteggerla. Una botta sul paraurti mi riportò alla fredda realtà. L’ auto dietro di noi ci stava caricando a sirene spiegate. – Fermati Nico, buttiamo la roba! – Urlai, mentre l’ ennesimo colpo mi faceva sobbalzare. - Col cazzo! Sono 4 milioni – Fermati! Fermati cazzo! – continuai con tutto il fiato che avevo in gola. Elisabetta mi fece eco, aggrappandosi al sedile. L’ ultimo colpo fece bingo. Lo stridio assordante delle gomme. Vidi il guard rail spaccarsi a metà davanti ai miei occhi poi solo acqua. Acqua. E Acqua.

Su quel letto gelido di metallo Nicla sembrava ancora più candida di quanto già non fosse. Il suo sorriso se n’ era andato. Vidi il dottore mentre, con lo sguardo freddo di una macchina, infilò il cartellino sul pollice del piede destro. Io piansi. Piansi le mie scelte, piansi quel viaggio, Piansi il suo sorriso, piansi quell’ ultima volta, piansi lei. Esistere e resistere era il male più grande che la vita mi avesse fatto. Poi, quasi impercettibilmente, il cartellino si mosse.

.

vertigine - apiras@hdemia.it

No stasera, sopra questo cornicione di merda, sporco di piscio di piccione, al settimo piano di un vecchio palazzo di periferia, in questa città del cazzo che è Milano, non ci sono finito per caso.
So cosa state pensando, ma io non sono uno dei soliti falliti che si butta di sotto perché la tipa l’ha lasciato, tradendolo. Magari col suo migliore amico, o più schifo ancora col suo capo. Non sono mica così sfigato. No io sono un uomo di un'altra pasta.
Il mio gesto ha un senso molto più insano di violenza congenita. Pensate che non vi veda da qua su? Mi fate schifo tutti quanti. I vostri lavori mediocri, le vostre vite mediocri. Le vedo, da qua, le vostre case da palazzinari borghesi, la cucina color pastello a parete dell’Ikea, il microonde, la tv a schermo a piatto, la lavastoviglie e la lavatrice. Le vostre macchine, borghesi anche quelle. Ridicole e pompose, rosse, gialle, bianche come i taxi, nere come la notte buia, come la morte. Vi vedo dentro i vostri Suv, da migliaia di euro. Luride puttane impellicciate coi loro marmocchi viziati seduti sul sedile di dietro. Col grembiulino, il cellulare in una tasca, e la psp tra le mani. Cazzo se ne può fare un bambino di 8 anni di un cellulare!. Le vedo ingoiare petrolio e sputare morte ogni giorno. E come sono piccoli da qua su i vostri tram, gialli, arancioni, verdi, che vanno su e giù per le rotaie, tra il grigio dei viali alberati. Grigio, come il colore delle vostre coscienze, limpide e immacolate. Già da qua su, sembrano quasi finti i vostri trenini sempre in ritardo, i vostri passaggi a livello con le loro luci, rosse, intermittenti. Le vostre stazioncine da modellismo infantile, piene di polacchi, rumeni, albanesi. “porto bagaglio signore”? Le vostre entrate della metrò, piene di anime invisibili, quasi trasparenti. Casa, lavoro, lavoro, casa… Migliaia di anonimi cappotti che si sfiorano ogni giorno senza mai incontrare il calore di uno sguardo. Le vostre strisce pedonali, i vostri chioschi dei giornali. Stampati a Roma come a Milano da un operaio Maghrebino. Arrivato in Italia con un barcone costruito in Algeria, con legno proveniente dal Libano, e un navigatore satellitare basato su una tecnologia Statunitense, progettato da un Ingegnere informatico Indiano trapiantato nella silicon valley… E come sembrate distanti da quassù, con i vostri cappottini e i vostri stivaletti in gomma. Il vostro bellissimo lettore mp3 o i - phone nuovo di zecca. Progettato in India, fabbricato in Cina, con manodopera pagata in nero, cinese pure quella. Plastica cinese, sangue, sudore e budella cinesi. Confezionato in America, trasportato in Italia chissà come e chissà dove. Pensate che non vi veda camminare tranquilli sulle vostre personalissime Nike. Progettate in America, da un ingegnere pakistano. Fabbricate a milioni di coppie in Thailandia. Dalle mani di bambine che prima o poi finiranno per prostituirsi con dei pedofili di merda rotti in culo del cazzo, tedeschi, francesi, italiani o spagnoli. E voi camminate tranquilli, con la morte sotto ai piedi. Con la vostra musica sintetica del cazzo che vi martella le orecchie, spappolandovi il cervello con emozioni preconfezionate in formato famiglia.
No, io stasera non ci sono finito per caso su questo cornicione.
Sono sul bordo di questo cornicione di merda, per ricordare a me stesso che la vita dura un fremito. Il tempo del battito di ali di una farfalla… E…Puff sei andato. Fottuto per sempre! Ed è come se non ci fossi mai stato. Il mondo potrebbe fare tranquillamente a meno di te.
Sono sul bordo di questo cornicione, qui al settimo piano, col vento che continua a sbattermi in faccia quella vertigine… Quel soffio di divino che ognuno di noi banalmente chiama vita.
Ed adesso, mentre spengo la mia ennesima canna, e scendo le scale aprendo il portone per raggiungere la macchina, continuo a pensare che sotto sotto non siamo poi così diversi.
Già, perché io in fondo sono proprio uguale a voi! Un codardo che cammina tutti i giorni con una pistola puntata alla tempia. Con un mutuo da pagare, una famiglia da mantenere. Un lavoro normale, con uno stipendio normale, con un capo che al posto del cervello ha una fossa settica intasata e stagnante... Normale anche quello. Già, mentre riaccendo il mio cellulare, per sentire mia moglie, ed avvisarla che mi hanno trattenuto a lavoro e farò un po’ tardi per cena, mi convinco sempre più che non siamo poi cosi tanto diversi. Ed anche ora che finalmente sono davanti al mio computer portatile, dopo aver scritto questo racconto di merda, mi sento proprio uguale a voi. Si esatto. uguale a voi, né più né meno. Ed anche in questo momento che sto per accendere la mia ultima canna, la canna lucida, fredda della mia Beretta. Ora che questo sapore insolito, misto tra il metallico e l’oleoso della vasellina, mi pervade la bocca, sono sempre più convinto, che si, sono proprio uguale a voi. Forse… e anche se fosse, è ancora per poco. Il tempo di cliccare questo fottuttissimo grilletto, e finalmente… Sarò veramente libero!

.