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speed kills - sguidicolombi@hdemia.it

L’ultima cosa che ricordo è il silenzio.

ll presentimento è qualcosa che ti entra nella pelle, che si insinua in te cosi discretamente da diventare un abito che non togli più.
Quella mattina, al mio risveglio, il presentimento era il mio compagno di letto, di doccia, di colazione.
Mi ha dato il buongiorno con un sorriso sarcastico e mi ha lanciato la sfida di passare la giornata assieme.
Io l’ho raccolta.
Altro non potevo fare.
Era un venerdì.
Non so perché ma ogni venerdi ha quel colore particolare, quel profumo insolito e fresco di un giorno che sembra uno scivolo.
Uno scivolo che ha come meta due giorni di libertà in cui puoi fare tutto, andare dove vuoi, essere ciò che credi.
Anche se poi sai che difficilmente farai o sarai qualcosa di insolito.
Mi alzai dal letto ed entrai in doccia.
Avrei voluto che i pensieri si fermassero ma c’era una nota stonata in ogni cosa, nel modo in cui l’acqua cadeva sul mio corpo, nelle bolle che il bagnoschiuma faceva sulla spugna.
Note stonate nella musica che era solo nella mia testa, come se le batterie si stessero scaricando.
Mi vestì. Feci un’abbondante colazione in vista della giornata impegnativa che aspettava solo me.
Il latte aveva perso il suo sapore ed i cereali non scrocchiavano più cosi decisi come il giorno prima.
Prima di uscire diedi uno sguardo alla mia casa. In silenzio.
Non so perché lo feci ma sentivo di doverlo fare.
Guardai il primo quadro che avevo dipinto, osservai il mio divano, testimone involontario di sogni e segreti.
Il letto, vertice di triangoli amorosi.
Chiusi la porta alle mie spalle, uno..due..tre giri di chiave, come se nessuno dovesse più rientrare dopo di me.

Pioveva. Cosi tanto che sembrava che la città dovesse allagarsi da un momento all’altro.
Tutte quelle gocce si erano portate via il freddo pungente dell’inverno e dipingevano di nuovi colori i marciapiedi, i tram, le persone stesse.
Dipingevano nuovi inizi, spazzando via la monotonia.
Arrivai al lavoro, dove mi aspettavano nove ore no stop di fatica, di idee, di caffè.
Ma tutto sembrava tranquillo, quieto, cosi calmo da infastidirmi.
Il presentimento si sedette accanto a me davanti al computer, scrisse assieme a me gli headlines per le ultime campagne, prese con me il caffè di metà giornata.

La mole di lavoro del venerdì è sempre piacevole, soprattutto quella del pomeriggio, perché lavorando è come se ti stessi guadagnando quelle 48 ore di libertà a cui pensi dall’inizio della settimana.
Ma quel giorno non aveva eguali, quella leggerezza tanto attesa si stava appesantendo. Senza motivo.
La sera non tardò molto ad arrivare e con essa anche le telefonate degli amici che organizzavano la serata.

Tornai a casa, la stanchezza non mi apparteneva.
Non mangiai, bevvi solo un bicchiere di vino, aspettando il mio passaggio in macchina.
Una festa in una piscina termale.
Quello era il nostro divertimento per quella sera, quella era la mano che staccava la spina dalle nostre menti.
Nuotammo, urlammo e cademmo mentre correvamo accanto alle vasche.
Tutti cosi stupidi da sembrare bambini, ognuno con il proprio compagno di giochi.
Io con lui, solo con lui. Il presentimento.
La notte si era fatta avanti e la nostra ultima meta doveva essere casa.
Sulla strada del ritorno i nostri occhi erano ancora affamati di adrenalina, di brivido.
Tutti insieme in macchina: io seduta dietro assieme ad Andrea e Marco che ridevano senza sosta; davanti Daniele, alla guida, alla ricerca di un modo per sfogare la sua pazzia, al suo fianco Lucia che gli dava corda.
Ma in realtà eravamo sei.
Daniele senza dirci nulla decise di passare con il rosso ad un semaforo solitamente trafficassimo.
Accelerò poco prima dell’incrocio, 90..100..110..km/h.
Trattenemmo il respiro e liberammo il silenzio, tutti, nello stesso momento.
Pochi metri che sembrarono kilometri, inebrianti kilometri.
E poi cinque urla, liberatorie, pazze, incoscienti.
Avevamo sfidato la sorte e lei aveva raccolto la sfida, mentre noi credevamo avesse battuto in ritirata.

Dieci interminabili minuti dopo un tir ci travolse.
Da lì iniziai a vedere e sentire a rallenty.

Marco e Andrea, nell’urto mi vennero addosso, scontrandosi l’uno con l’altro.
Io spaccai il finestrino con la testa.
Daniele e Lucia balzarono fuori dalla macchina attraverso il parabrezza che frantumarono con il peso e la potenza dei loro corpi.
L’auto fece un paio di giri su se stessa, fermandosi poi grazie all’impatto con il guardrail.
Vidi i volti dei miei amici contorcersi dal terrore, vidi i loro corpi frantumarsi come friabili biscotti stretti in una mano.
Vidi la mia e la loro paura fondersi insieme in un composto sconvolgente.
Il tir andò a sbattere contro un palo della luce.
Non vidi più nessuno uscire da lì.

La morte era lì, davanti al ricordo del nostro respiro.
Lì, su chi era riverso a terra, morto a qualche metro di distanza da me.
Le guance appoggiate al cuscino d’asfalto.
La morte era nei corpi accartocciati dentro l’auto. Ossa e crani frantumati. Sbriciolati.

Io, metà del mio corpo fuori dal finestrino e l’altra metà dentro la macchina. L’osso del collo spezzato.
Io assieme al mio fedele e instancabile compagno della giornata.
Lui, che fin dall’inizio mi aveva sussurrato la fine.

L’ultima cosa che ricordo è il silenzio.


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