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intervista ad una pornostar - emasetti@hdemia.it

Quella palla di lardo del capo mi aveva appena dato una promozione, dopo ben cinque anni che gli lustravo le scarpe, scrivendo recensioni per cinepanettoni italiani: il periodo più ignorante della mia vita, sembra una cazzata, ma calare la propria intelligenza a tirare fuori qualcosa da dire su sketches iperscadenti è quanto di peggio possa desiderare di fare un giornalista specializzato in cinema. Probabilmente la mia saturazione era talmente evidente che il capo stesso la lesse nei miei occhi, e decise finalmente di dare una svolta alla mia giovane carriera. L’entusiasmo e la soddisfazione per il suo sorprendente annuncio furono immediatamente messi a tacere dal servizio con cui aveva inizio la seconda fase della mia carriera giornalistica: dal giorno successivo, infatti, avrei avuto un mese per rintracciare Olivia Dalla Via e confezionare un reportage sulla sua vita.
Olivia Dalla Via, sì proprio lei, la nuova reginetta del porno all’italiana, quella mantide del sesso dai colori mediterranei e dalle curve di plastica, che il mio coinquilino mi aveva descritto come la più verosimile bambola gonfiabile. Una promozione piuttosto curiosa quindi, dato che il tasso di volgarità non distanziava di molto il cinema natalizio dalla pornografia. Sarebbe stato bello poi inserire questa esperienza nel mio curriculum, per non parlare di come annunciarlo alla mia fidanzata…
Messa a tacere la mia vena polemica, prenotai il volo per Napoli e dopo una decina di telefonate ad amici di amici di amici, sarei forse riuscito a parlare a quattrocchi con la famosa dea del sesso.
Riuscii intanto a mettermi in contatto con l’ufficio stampa della casa di produzione più gettonata dall’industria pornografica italiana, che mi promise un giorno di accoglienza presso gli studi in cui Olivia stava girando attualmente. Mentre ero in volo tentai di immaginarmi quali potevano essere le domande per scoprire i segreti di un’attrice porno. L’infanzia, la scelta, il rapporto con la famiglia, le prospettive per il futuro: in fondo le questioni erano facili da individuare, più critico sarebbe invece stato recuperare terreno di fronte alle sue risposte, soprattutto da parte di uno come me, che di cinema porno ne sapeva molto poco – avevo sempre creduto che fosse meglio fare, piuttosto che limitarsi a vedere.
Giunto a destinazione, fui scortato agli studi da un uomo scorbutico, che non mi rivolse nemmeno uno sguardo, preso com’era da un’accesa discussione al telefonino, che durò per tutto il tempo del viaggio. Gli studi erano fuori città, in una piccola frazione di campagna, e consistevano in due capannoni a prima vista fatiscenti. All’interno invece lo spazio era occupato da quattro set, particolarmente curati: un salotto, un ufficio, una camera da letto e uno spogliatoio. Proprio qui si stava girando un film, lo dedussi dai gemiti che echeggiavano nell’ambiente, intervallati solo dalle urla con cui il regista dirigeva la scena. Mi avvicinai, tenendomi dietro alla schiera di operatori vestiti di nero: eccola, Olivia, impossibile non riconoscerla, in quanto unica donna, in compagnia di tre uomini di mezza età, con pancia da birra e stempiature che si divoravano i capelli ormai bisunti. Un tripudio di viscidume, che avrebbe reso la scena particolarmente drammatica, se non fosse stata ingentilita da lei: non era affatto come me l’ero immaginata, la donna di plastica gonfiata di cuscinetti finti; Olivia era bella. Bellissima. I suoi occhi azzurro cielo splendevano anche da sotto quelle masse di carne odorosa, i capelli lunghi, castani, erano rigogliosi come quelli d’una bambina. E le mani, che furono obbligate a fare cose aberranti, erano delicate e rosee, senza smalti e orpelli. La sensazione che ebbi, mentre la vedevo compiere gesti che non le si addicevano affatto, fu di protezione e affetto, come se quella ragazza fosse totalmente indifesa, e dei pervertiti la stessero violentando. Sentii un brivido schifato corrermi lungo la schiena, ma resistetti fino al termine delle riprese, quando lei finì la sua performance letteralmente sepolta di sperma, immagine che mi fece rivoltare lo stomaco e dovetti trattenere un conato di nausea. Corsi al bagno, per sciacquarmi la faccia e non fare la figura del bigotto fuori luogo: non era di certo la prima volta che vedevo una scena del genere, ma subirla dal vivo faceva un certo effetto, e poi la protagonista era lei…
Quando rientrai in sala mi porsero una sedia, e mi promisero che tra qualche minuto Olivia mi avrebbe raggiunto, per i miei trenta minuti di intervista. Attesi guardandomi attorno, ancora un po’ intontito, preparando carta e penna. Lei arrivò, in tuta da ginnastica, scarpe basse e occhiali da sole: l’unico tocco da diva che si era permessa, pensai, e la distingueva dalla volgarità dell’ambiente. Una stretta di mano e via, partii con le domande, cercando di essere meno sfrontato possibile, quasi non volessi scalfire la sua privacy, a differenza di tutte le altre volte in cui avevo conversato con divi stronzi. Lei sorrideva, e rispondeva come se essere intervistata fosse parte integrante del suo lavoro da pornostar. Fu certamente la prima a rispondere cortesemente ai miei quesiti.
“Olivia, la prima domanda che vorrei porti è sicuramente scontata, ma indispensabile per il servizio: come sei arrivata a optare per questa strada?” le chiesi, abbozzando un tono professionale.
“Sai, io ero un’adolescente come tutte le altre, dedita allo studio, circondata da amiche con cui confidarmi e una famiglia per bene, che certamente mi avrebbe sostenuto per il resto della mia vita” rispose senza perdere un accenno di sincero sorriso. “La scelta è arrivata per caso, come penso accada per tutte le altre professioni, con la differenza che forse sono tra i pochi che per lavoro fa qualcosa che ama davvero. A chi non piace il sesso d’altronde?”.
La mia agitazione andò placandosi alle sue oneste confidenze, e la sua scioltezza mi aiutava ad accettare che una ragazza così dolce potesse fare quel mestiere.
“Beh invidiabile” ripresi “E pensi di continuare su questa strada per ancora molti anni?”
Scoppiò in una risata di cui era impossibile non innamorarsi: “Rughe permettendo! A parte gli scherzi, non credo potrò farlo per tutta la vita, e poi adoro cambiare rotta, credo renda la vita più interessante. In futuro mi piacerebbe aprire una scuola per bambini meno fortunati, con handicap fisici o senza famiglia”.
Dio, ma quanto era tenera! Se solo quegli sporchi attori di seconda scelta avessero saputo con quale donna si stavano trastullando, avrebbero tutti ritirato gli ormoni, per portarsela all’altare.
Aggiunse dei particolari, che segnai sul mio taccuino senza quasi sentirli, perché assorto nelle mie fantasie da tredicenne infatuato. Non era da me essere così sdolcinato, ma Olivia mi suscitava un senso di protezione che mai avevo provato in precedenza. Giunsi con tristezza all’ultima domanda, mentre già vedevo gli assistenti di scena farle cenno che a breve avrebbero ricominciato a registrare.
“Sei incantevole” non potei trattenermi, “ma dimmi, i tuoi genitori cosa pensano di tutto questo? Non dev’essere facile vedere la propria figlia ventenne approcciarsi a un mondo così ambiguo…”
“Ah, scusa, io ormai lo do per scontato, mi dimentico sempre che in realtà sono stata adottata, quando ancora ero in fasce. In ogni caso è questa la mia vera famiglia, e i miei genitori hanno accettato questa scelta, certo non senza opporsi inizialmente, ma discutendone con me, e infine rispettando la mia volontà, come sempre hanno fatto”.
Alla sua ultima battuta rimasi scioccato, non tanto per la storia idilliaca che mi stava narrando, quanto perché io stesso avevo vissuto sulla mia pelle l’esperienza dell’adozione.
Ricordo che avevo otto anni, quando mia madre rimase incinta e pochi mesi dopo, nel mezzo della notte, fummo costretti a correre all’ospedale, perché lei stava avendo un parto prematuro. Non ricordo molte immagini di quella notte, è tutto rimasto confuso, ma c’è una scena rimasta impressa nella mia memoria, che mai potrò cancellare: mia madre, ancora devastata dal parto, che teneva tra le braccia un fagotto rosa, e piangeva disperata. Quel fagotto era stupendo, aveva gli occhi di un azzurro sconvolgente, e solo più tardi mi fu spiegato che quello è l’azzurro delle persone che non potranno mai vedere il mondo. Mia madre era talmente depressa che mia sorella non poté nemmeno varcare la soglia della nostra vita, e fu data in adozione prima che potessi conoscerla, ma non prima che potessi innamorarmi di lei.
Sbalzato indietro nei miei pensieri, non feci caso che gli assistenti di scena, irritati, urlavano di sgomberare la zona per riprendere il lavoro. Vidi solo una donna sulla cinquantina avvicinarsi a Olivia, che concedendomi il suo dolcissimo sorriso si alzò in piedi e afferrò il bastone per non vedenti che questa le porgeva, per poi accompagnarla nei camerini.

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