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senza titolo - mbetti@hdemia.it

Non so se lasciare casa fosse la scelta giusta, ma il motore del mio Furgoncino Wolkswagen era troppo invitante quel giorno. Bianco. Interni di pelle marrone. Elisabetta, Nicla, Nicola e Maria. Tanta Maria. Troppa Maria. Non avevo un lavoro e non avevo ambizioni, ma gli anni 60 non chiedevano nessuno dei 2. Mi ricordo che era un pomeriggio assolato, il 13 maggio, di quelli con la luce arancione ed i ricordi morbidi. Viaggiavamo sulla E7, in direzione Bologna, e la prima bomba ce l’ accendemmo sulla rampa di ingresso della superstrada. Era buona, aromatica, profumata di libertà. Tutto aveva un gusto diverso con quella luce. Elisabetta e Nicla erano due ragazze romane, conosciute tra una birra e una paglia la sera prima. Avevano un sorriso che le altre non avevano, e Nicla, la mia preferita, sapeva di fiori Zagara e di brioche calde alla mattina. Un piccolo neo, appena al dì sopra delle labbra, si nascondeva ogni volta che cercava di ammiccarmi nel suo modo infantile. Era una bambina. E io non ero diverso da lei anche se credevo di esserlo. Volando sopra quei ponti a cavallo degli appennini sognavo un posto che non avevo, una emancipazione fatta di canne e fiori, come prima di me aveva già fatto mezza america. Ma il solo fatto di essere dentro quel sogno straniero già mi bastava. E poi c’ era lei, e lei spiegava tutto. Nicola stringeva il volante con la destra, mentre con l’ altra, scuotendo i suoi rayban marroni, dava un occhiata distratta allo specchietto. Era felice. Lo sapevo. Felice di quella situazione, di Elisabetta, di me, del furgone. Felice di sé stesso. Le ragazze, fissando fuori dal finestrino, stavano in silenzio contemplando il momento. Per un attimo tutto mi sembrò come sospeso. Poi improvvisamente mi voltai, rompendo quell’ equilibrio. – Ma tu chi sei? Da dove vieni?– Dissi in direzione di Nicla. – Io sono Nicla, Nicla e basta – mi rispose un po’ spiazzata. Il suo sguardo giocò a nascondino. – e…. che fai nella prossima mezz’ ora nicla? – aggiunsi fissandola negli occhi. - Non so…magari mi- Con un rapido movimento balzai dietro, interrompendo i suo discorsi. Elisabetta, sorrise complice, intuendo le mie intenzioni. Cominciai a baciarla, dapprima lentamente ,poi con una voglia che dopo una canna non mi sarei mai sognato di avere. Le mie mani seguivano il disegno del suo corpo senza che lei si opponesse in alcun modo. Nicola accostò nella piazzola più vicina, a 300 metri dall’ uscita di cesena, e passò dietro con noi. Fu veloce, caldo, sudato, condiviso. Come l’ erba migliore. Potevo vedere le goccioline di fatica colare giù dalle palpebre di Nicola mentre elisabetta lo baciava. E Nicla. Nicla non disse una parola, ma non serviva. Mi abbracciava, aggrappandosi con le unghie al mio respiro e alla mia pelle. Il suo odore, risalendo dalle narici, era la miglior droga del mondo. Mi ero già innamorato di lei e del suo neo, anche se lei ancora non lo sapeva. Sui finestrini, umidi del nostro calore, disegnai un fiore per lei. Mi sorrise. Come solo lei sapeva fare. Un ombra nera, battendo ripetutamente sul finestrino, mi risvegliò dal mio locus amoenus. Una luce rossa e blu ad intermittenza illuminavano i nostri corpi nudi. Toc toc. Un altro battito. Voci. Niccolò, senza nemmeno vestirsi, saltò nel sedile davanti. Era la pula. Era la vendetta divina. Erano i guastafeste. Erano 3 i kili di maria nel bagagliaio. Senza pensarci due volte, saltai anch’ io nel sedile del passeggero, mentre il furgoncino, sgommando, guadagnava la superstrada. In pochi secondi fummo oltre i cento orari. Mi voltai cercandola. Nicla, con lo sguardo terrorizzato di una bambina, mi stava guardando. – Stai calma, andrà tutto bene. – dissi con una voce da film a cui non credevo neanche io. Furono i miei occhi a tradirmi. Lei era ancora nuda, bianca, così fragile da farmi tenerezza. Aveva paura. Avrei voluto scendere, piangere, chiedere scusa a tutti, e incamminarmi mano nella mano con lei verso casa. Avrei voluto proteggerla. Una botta sul paraurti mi riportò alla fredda realtà. L’ auto dietro di noi ci stava caricando a sirene spiegate. – Fermati Nico, buttiamo la roba! – Urlai, mentre l’ ennesimo colpo mi faceva sobbalzare. - Col cazzo! Sono 4 milioni – Fermati! Fermati cazzo! – continuai con tutto il fiato che avevo in gola. Elisabetta mi fece eco, aggrappandosi al sedile. L’ ultimo colpo fece bingo. Lo stridio assordante delle gomme. Vidi il guard rail spaccarsi a metà davanti ai miei occhi poi solo acqua. Acqua. E Acqua.

Su quel letto gelido di metallo Nicla sembrava ancora più candida di quanto già non fosse. Il suo sorriso se n’ era andato. Vidi il dottore mentre, con lo sguardo freddo di una macchina, infilò il cartellino sul pollice del piede destro. Io piansi. Piansi le mie scelte, piansi quel viaggio, Piansi il suo sorriso, piansi quell’ ultima volta, piansi lei. Esistere e resistere era il male più grande che la vita mi avesse fatto. Poi, quasi impercettibilmente, il cartellino si mosse.

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