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15 parole - fmarcucci@hdemia.it

“Ma cosa credi? Pensi davvero che basti scrivere tre pagine cagate per fare un libro?”.

“No, certo che no”, dissi io, “ma..” “Ma che cosa? Ma - che - cosa?”, mi ribatté lui subito, scandendomi le parole come fossi un deficiente, un minorato. E io immobile, sudato, pallido, seduto in quella sedia, ma a terra, completamente a terra. Atterrito. Che sarebbe stato un sogno se tutto quello in realtà fosse stato solo un incubo. E lui, dall'altra parte della sua ricca scrivania, continuava a leggersi quel mio prezioso manoscritto. Se lo rigirava stufato tra le mani, quel lavoro che era una parte di me, quel lavoro che io ero stato attento che non avesse nemmeno mezza stropicciatura, e che ora dopo il suo trattamento sembrava carta straccia, carta igienica. Usata.

“Guarda”, riprese lui, “secondo me è inutile che insisti, questa cagata che hai scritto fa vomitare, non pensarci, fai altro, fai come tutti i ragazzi della tua età, vai a giocare a pallone, che intanto lo scrittore non lo diventerai mai.”

Erano mesi che aspettavo quel giorno, quell'incontro con lui: uno dei più rinomati esperti e critici di letteratura, grande scopritore di talenti e, per questo, molto influente presso le case editrici, anche tra quelle più grosse. O almeno come pensavo e mi era stato fatto pensare all'epoca: in realtà, un amico di mia madre, la sua fama la quale non andava oltre la mia piccola città. Paese a dire il vero: uno di quei noduli di case insignificanti, grigie cemento, attraversate da un nastro d'asfalto che fa da strada principale, d'entrata, d'uscita e di transito.

Ma io ero ancora un ragazzino di provincia, e quell'amico di mia madre, dichiaratamente dell'altra sponda, mi sapeva tanto di artista: viveva a Milano, viaggiava tra Londra, Parigi e New York, e a me, a me dava quell'impressione, di uno cazzuto insomma. Solo dopo qualche anno scoprii poi che a conti fatti, piuttosto che cazzuto, era un cazzone, che non combinava nulla e che spendeva i soldi di famiglia, e che quella sua cultura, quella sua posizione e quelle sue amicizie, era solo e giusto una questione di culo. Del suo, di culo.

Valle a sapere certe cose, quando sei un ragazzino di provincia.

E quindi quel pomeriggio ero lì, davanti a quella bella scrivania, dopo tanta attesa che lui ripassasse per il paese tra un viaggio e l'altro. Ero lì, davanti a tutta quella sua gaiezza così tanto ben espressa da quel suo bel maglione fucsia, che ora direi, con un occhio più esperto, dovesse proprio essere in pregiato cachemire.

“Anna era la più bella ragazza del mondo” iniziava così il mio racconto, e ancora me lo ricordo letto a voce alta da lui a me, con una voce, una voce che sembrava un sintetizzatore vocale, indeciso se essere maschile o femminile, con gli acuti sballati e i bassi strozzati. E ok, concordo, l'incipit non era un granché, concordo, lo riconosco, lo ammetto, ma ero un ragazzino, ero semplice e genuino, e Anna, quell'Anna a cui m'ispiravo io per l'Anna del racconto era davvero una figa. Una figa figa. Ma proprio figa un sacco: bionda, una ragazza bionda con gli occhi grigi, alta, alta ma non troppo, formosa che sballava, che quando ti parlava ti ipnotizzava e che quando ti camminava davanti ti accaldava. Eh sì, eh sì, quando ci penso penso che quel gran saggio si fosse proprio ispirato a lei, quando aveva formulato quella massima di infinito e reale valore semantico: bionda, beato chi ti sfonda.

Ed era inevitabile del resto che poi io, ragazzino di provincia, avessi proseguito il racconto con varie scene in cui Anna, per motivi non propriamente religiosi, si trovava spesso in ginocchio. Indaffarata e in ginocchio. Senza che stesse lavando i pavimenti, no, quello no. Non quello. Ed era altrettanto inevitabile, data la mia così povera di spunti vita di provincia, e che delle grandi città ne sentivo solo parlare dai telegiornali, tra scioperi, cortei, bombe e stupri, che alla mia Anna non regalai una bella fine: violentata da dei manifestati comunisti, di cui uno aspirante bombarolo, durante una manifestazione a sostegno della classe operaia violentata dai capitalisti. Sì, perché all'epoca, quando scrissi quel racconto, mi era piaciuta l'idea dei lavoratori che subivano le violenze dei capitalisti, e di Anna che le subiva dai comunisti, seppur non avesse nessun senso. Io, ragazzino di provincia, la trovavo una bella trovata. Lui no. Lui non era assolutamente di quell'idea: “ma questo, scusa, che cazzo centra?” mi aveva detto, quel mezzo uomo, per il quale all'epoca portavo tra l'altro un sacco di rispetto, e io lì, a fare spallucce, ad accennare un mezza smorfia con la bocca, sommessa, con un arrugare della fronte, sommesso anche quello e contemporaneo ad un quasi repentino abbassamento della testa, e con essa dello sguardo. E io, io che pensavo di essere stato originale. Sì, insomma, mica l'avevo fatta violentare in un banale vicolo cieco durante una tenebrosa notte cupa, eh! Sì, forse il comunista con il machete, non era sta una gran bella idea, soprattutto considerando che era durante un corteo pacifico e solidale con gli operai, però a me piaceva. L'ho detto. E del resto ero un ragazzino. Un ragazzino di provincia.

Sono passati tanti di quegli anni, ma quell'incontro, quel giorno, me lo ricordo benissimo: i particolari e le emozioni, la gioia del mattino, l'ansia delle settimane precedente e la tristezza della sera. La sua pelata, lucida, lucidata, e quegli occhiali tondi, con la montatura troppo grossa per quel viso magro, lungo, cavallino. Mi ricordo quando me ne andai, quando dopo avermi congedato si accese il proiettore che aveva nel suo studio per vedersi chissà quale film di quale anno del cucco, infastidito dalla perdita di tempo che era stata la mia visita. Mi ricordo la mia angoscia nell'aver fatto fare brutta figura a mia madre. A mia madre. Mi ricordo il ritorno a casa in lacrime, con in mano il mio manoscritto, che lui neanche aveva voluto tenere. Mi ricordo il film di guerra che passava quella sera in tivù. Mi ricordo la notte insonne.

Mi ricordo la delusione del giorno. E mi ricordo la rabbia del giorno dopo.

Sì, ne ero cosciente allora, e ne sono ancora più consapevole adesso, a distanza di tanti anni: lui mi aveva dato quello di cui avevo bisogno, un obiettivo. Io, ragazzino di provincia, che scrivevo per noia, che volevo sentire un semplice parere da un amico di famiglia e che non volevo niente più, ora, ora volevo il successo, la fama: volevo essere riconosciuto da tutti come un grande scrittore.

Revanche, revanche! Quel giorno la mia vita era cambiata.

Quella mia opera prima, che fosse stato per lui, sarebbe stata pure l'ultima, era solo una scintilla: il primo passaggio senza successo di un fiammifero sulla striscia ruvida. Io il fiammifero, lui la striscia ruvida.

Così è. Questa è la mia storia, e questa è la mia dedica. Perché il mio successo è tutto per lui, per te.

Sì, sì, lo dedico a te, che pieno di rabbia, se non sei morto, stai leggendo. Il mio ultimo libro, “Il cappotto bruciato dell'Anaconda”, è tutto per te, perché io, ragazzino di provincia, con riconoscenza, vaffanculo, ce l'ho fatta.

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